Artur Jorge, la coppa di Juary e quel titolo mai uscito
Si è spento all'età di 78 anni Artur Jorge, autentico guru del calcio portoghese. Il ricordo del nostro Roberto Beccantini.

La scomparsa di Artur Jorge, guru portoghese di un calcio che abbiamo licenziato con la furia iconoclasta degli sbirri a caccia di Al Capone, mi ha riportato a un frammento di vita, di carriera. Aveva 78 anni, portava baffoni che sembravano cespugli scolpiti, così neri, così folti. In gioventù era stato attaccante, e come tale aveva inteso il mestiere, la missione. Un passo avanti, sempre; mai indietro.
Allenava il Porto quando, il 27 maggio 1987, sfidò il Bayern nella finale della Coppa dei Campioni al Prater di Vienna. Il Bayern, per la cronaca e per la storia, di Andreas Brehme (pace ai traversoni suoi) e Lothar Matthaeus; di Jean-Marie Pfaff, il portiere saltimbanco, e Michael Rummenigge, il fratellino di Kalle. «La Gazzetta dello Sport» spedì il sottoscritto. Era una primavera cruciale, di confine, vigilia dell’epifania tecnologica (pc fissi e portatili, bye bye piombo), ma, appunto, «solo» vigilia. I cellulari, per esempio, non rientravano ancora nel kit dell’inviato. Se volevi il telefono in tribuna stampa, dovevi ordinarlo. E pagarlo.
Quello che vado a raccontarvi non è uno scoop. E’ un «frame», per usare un termine alla moda, che esce dalla memoria e da un libro, «Il nome della rosea», che Flavio Vanetti, giornalista ufologo e scherzologo, ha dedicato alla «Gazzetta» degli anni Ottanta. La «Gazzetta» del boom: 800 mila copie o su di lì.
Bene. Il Porto di Artur Jorge contro il Bayern di Udo Lattek. Scuole distinte; l’una, brasilianeggiante; la seconda, fondata sulla tempra e sui cingoli. Nel merito: primo tempo made in Bayern, rete di Ludwig Kögl e la sensazione che la trama avesse già scelto il padrone. Cominciai a battere sulla Olivetti. Chiamai i dimafonisti nell’intervallo. Parlai con il collega di turno in redazione, colui che avrebbe avuto l’onere (e non certo l’onore) di impaginare il mio pezzo. Germano Bovolenta. Di Porto Tolle, dal baffo (lui quoque) poliziesco. La stava guardando in tv, ci scambiammo impressioni volanti. Coincidevano: Bayern uber alles.
Secondo tempo. Prendete il mondo e rovesciatelo. Pareggio dell’algerino Rabah Madjer, di tacco (da qui, «tacco di Allah»), squillo di Juary, l’aletta che ad Avellino festeggiava i gol danzando attorno alla bandierina del corner. Impugnai la cornetta, diedi a braccio, vista l’ora, cercando di riassumere in fretta, ma con chiarezza, la metamorfosi, il cambio della guardia, il Bayern alle corde e il Porto al centro del ring, tiranno assoluto.
Dopo aver dettato il pezzo, con tanto di cappello adeguato all’enormità dell’epilogo, chiesi al centralino di girarmi il Bovo. Lo pregai, uffa e ri-uffa, di mettere in risalto, nel titolo e nei sommari, la bellezza sconvolgente della rimonta portoghese. Tranquillo, mi rispose. Mi fiondai, così, nel ventre dell’arena per verificare che, dagli spogliatoi, non uscissero venti di guerra. Non ne uscirono. Tornai al mio desk e, per l’ultima volta, mi collegai con via Solferino.
Germano mi aspettava al varco: «Cosa vuoi, rompicoglioni?». Un po’ fantozzianamente, con la voce adeguata alla serialità della petizione, gli domandai se bè, sì, insomma, avesse messo in risalto il concetto della sfida capovolta, dei vinti-vincitori e dei vincitori-vinti. Un attimo di silenzio e poi, da Milano: «Abbiamo fatto “Porto dio”. Ti basta? E ora ciao, corro in tipografia». Rientrato alla base, testimoni oculari mi confessarono che Angelo Garavaglia, il gran «chiusore» delle notti rosee, aveva urlato: «Pederasti, volete che ci licenzino tutti? Cambiatelo subito».
Naturalmente, era uno scherzo. Naturalmente, il titolo fu rimosso e ne uscì uno più umano, anche se più banale: «L’Europa nel Porto di Juary». Peccato.