Napoli, tra i milioni di Jeppson e la monetina di Facchetti
Il peso di una monetina. Dai milioni spesi per lo svedese Hans Olof Jeppson, alla storica monetina di Facchetti nel 1968 contro l'URSS.

Il peso di una monetina. A Napoli. Nel 1952, Achille Lauro pagò 105 milioni di lire per l’attaccante svedese Hans Olof Jeppson detto Hasse: ogni volta che stramazzava, la folla gridava «è caduto ’o Banco ‘e Napule». Nel 1975 toccò a Beppe Savoldi, centravanti bergamasco del Bologna: 1 miliardo e 400 milioni di lire più Sergio Clerici e la metà di Rosario Rampanti. Da qui, tra netto e conguaglio in «carne», il titolo di mister «Due miliardi».
La moneta, in compenso, risale al 1968, alla semifinale della terza edizione del campionato d’Europa per Nazioni, la cui 17a. puntata scatterà venerdì 14 giugno a Monaco di Baviera, con Germania-Scozia. Teatro, lo stadio San Paolo. In campo, Italia e Unione Sovietica. Noi, reduci dalla fatal Corea (del Nord) di Middlesbrough 1966; loro, campioni nel 1960 e finalisti nel 1964.
Era mercoledì 5 giugno. Arbitro, l’assicuratore tedesco Kurt Tschenscher. Ct, Ferruccio Valcareggi. Formazione degli azzurri: Zoff (che proprio a Napoli, il 20 aprile, aveva debuttato con la Bulgaria); Burgnich, Facchetti; Bercellino I, Castano, Ferrini; Domenghini, Juliano, Mazzola, Rivera, Prati. Fu un’opera lirica senza acuti tenorili, prigioniera dei rispettivi cori. Rivera e Giancarlo Bercellino infortunati, un palo di Angelo Domenghini, nessuna traccia (ancora per poco) di Gigi Riva.
Zero a zero al 90’ e al 120’. All’epoca, non si andava ai rigori. Ci si affidava al sorteggio. Corsi e ricorsi: nell’Olimpiade romana del 1960 era stata proprio la monetina, e sempre a Napoli, a fregarci, in semifinale, con la Jugoslavia. Torniamo a Fuorigrotta. Ai 75 mila con il morale sospeso e la scaramanzia al lavoro. Come scena del destino, Tschenscher sceglie lo spogliatoio. E convoca i due capitani: Giacinto Facchetti, Albert Šcesternëv. Potete immaginare la confusione, il via-vai di addetti e non addetti.
C’è chi parla di «vecchia moneta austriaca» (Mimmo Carratelli ne «La Storia degli Europei»), chi delle nostre cento lire e chi – come Gianfelice, figlio di Giacinto – di una moneta da cinque franchi svizzeri: «Testa o croce? Testa, senza esitazioni, la faccia scelta da papà».
Si narra che, al primo lancio, la Maledetta finì nella fessura del pavimento. Al termine del secondo, lo sceriffo teutonico «la raccolse nella palma di una mano coprendola con l’altra». Poi: «Italy!». Le urla di pochi diventarono il boato di tutti. Italy! Con il sorteggio che scaccia il dileggio e la fortuna che fa miracoli come San Gennaro quando è in vena. La fantasia dei napoletani non ha confini. Questa è una delle migliori: «Per fare l’artista ci vuole il culo e l’intelligenza: il culo perché s’ha da da’, e l’intelligenza perché s’ha da capì a chi sa da da’ ‘o culo».
In onore delle monetine, si parla ancora oggi di «lotteria» dei rigori, termine non proprio esatto ma capace di accendere dibattiti e, quindi, tagliato su misura per i popoli litigiosi. Ci sono state altre monetine che, tirate negli occhi degli avversari, avrebbero sancito non pochi, e non lievi, 0-2 a tavolino. C’è quella, canonica e sopravvissuta – per ora – all’intelligenza artificiale e artificiosa di meccanizzare il mondo, che consente ai capitani di scegliere campo o pallone. Insomma, ce ne sono (quasi) di tutti i tipi: e, in particolare, per tutti i gusti.
Quella di Napoli ha fatto storia. Per l’anno sul quale rimbalzò – il Sessantotto, basta la parola – e per la posta che covava in seno: la finale di Roma, con la Jugoslavia. Pareggiata in extremis (1-1, Domenghini), ripetuta e vinta in bellezza, per 2-0, con i gol degli allupati Riva e Pietro Anastasi. «Giudico che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ce ne lasci governare l’altra metà», scriveva Niccolò Machiavelli. Ops.