Brindo con Zeman e i suoi «botti» (anche a Spalletti)
Zdenek Zeman sta diventando un mestiere. La perpetua ripetizione dei suoi - nobilissimi - concetti portati all'esasperazione.

A 74 anni, Zdenek Zeman sta diventando un mestiere. Il mestiere di ripetere – perché ci crede, perché serve, perché conviene – i soliti sospetti e i soliti concetti, molti dei quali nobilissimi, sui soliti argomenti e contro i soliti bersagli (Luciano Moggi e la Juventus per distacco; poi le finanze allegre e la sudditanza psicologica, Var o non Var). Ha riaperto il Luna park di Foggia e resta un maestro di calcio, un po’ Manzi un po’ Torquemada.
La lotta al doping e la difesa dei valori etici sono battaglie che apprezzo e condivido. La melma delle plusvalenze e il caso della Salernitana, ostaggio di regole vaghe e appetiti immondi – quelli di Claudio Lotito, a cui evidentemente la Lazio non basta – hanno ribadito il suo fiuto, le sue visioni, anche se con un supporto scenico più moderato.
Parafrasando Giorgio Gaber, non temo lo «Zeman in me» ma comincia a stufarmi lo «Zeman in sé». Perché sì, le risposte non mi sembrano più dirette e genuine come un tempo; mi sembrano, come dire?, automatiche, obbligate, scandite pensando ad altro, ad altri (elementare, Moggi). A ogni edizione di Juventus-Roma scatta implacabile, lui che tante ne ha vissute e patite, la domanda: mister, quanti scudetti ha vinto la Juventus? E se il discorso scivola sul contratto di Lorenzo Insigne, in scadenza nel giugno del 2022, ecco la stoccata a Luciano Spalletti: «Occhio, già sbagliò con Francesco Totti».
Sarà la vecchiaia, mia e sua, ma non lo trovo più «nature» come all’epoca delle sigarette-baionette. Zdenek riassume la coscienza di un «altro» sport, sicuramente più pulito di quello moggiano – anche se vi raccomando i misteri di Pasquale Casillo, i Rolex di Franco Sensi, l’asse fra Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi, il Berlusconismo rampante, il Morattismo ambiguo e la frecciata che [il boemo] inflisse a Giancarlo Abete ai tempi della sua presidenza federale («Non è un mio nemico, è un nemico del calcio», dall’intervista rilasciata a «Sette», il magazine del «Corriere della Sera»).
Zeman vive di ricordi che l’attualità incessante e straziante continua a trasformare in moniti, la «saga» dei tamponi chissà cosa gli avrebbe suggerito se solo fosse capitata ai suoi bei dì; quando, cioè, era l’oracolo del nostro mondo, il censore che, fumando, castigava i costumi di un sistema lascivo e corrivo. Dalla passaportopoli di Alvaro Recoba alla «cocumella» perugina di Luis Suarez detto il Pistolero stilate voi la classifica. Essere intercettati costituisce ormai un motivo di orgoglio, se non addirittura di culto: solo i pezzenti non lo sono. E non sempre è un paradosso.
Ogni volta che Ciro Immobile segna un gol, penso allo Zeman di Pescara, alla sua scuola di onore e di sudore, a Marco Verratti, a Insigne. Alla Zemanlandia di Foggia che fu la sua «clinica». A quel Licata del quale parla ancora come della creatura più bella e più dolce. Alla Roma di Sensi che, per arrivare allo scudetto, dovette sacrificarlo e arruolare un allenatore «caro» al Palazzo, Fabio Capello («Io alla Juventus? Mai»). Così scrivemmo. E, soprattutto, ad Antonio Giraudo e all’intervista che rilasciò a Marco Imarisio del «Corriere della Sera» il 15 luglio 2006, a Calciopoli appena esplosa. A una frase, in particolare. Quella di chiusura: «Il suo congedo non è da Scarface – scrive Imarisio – ma da uomo ferito: “Io me ne vado, ma ho il dubbio che chi rimane non sia poi tanto diverso da me”.
Un dubbio che, immagino, sarà venuto anche a Zdenko. E siamo già al 2022: buon anno.