Gli 80 anni di Dino Zoff: quella «confessione» a Berlino Est

Dopo nove anni senza mai parlare del goal ai Mondiali del 1978 che eliminò l'Italia, Zoff “confessò", lasciando tutti di stucco: “Perché sì, se a Buenos Aires contro gli olandesi non fossi stato così imbranato, in finale, con l’Argentina, ci saremmo andati noi".

Articolo di Roberto Beccantini28/02/2022

Festeggiare gli 80 anni di Dino Zoff è esercizio pericoloso, scivoloso: lo hai già celebrato così tante volte che hai paura di ripeterti o, per non ripeterti, di sbracare: «questi due impostori», come Rudyard Kipling battezzò il trionfo e la sconfitta nell’immortale «If».
Friulano e pasoliniano, portiere di giorno e di notte, la maglia come divisa, il numero uno a tracciare subito il confine della solitudine. Se volete farlo arrabbiare ditegli che è un monumento. Vi risponderà che il passaggio dal monumento alla mummia è breve e allora: statuario sì, statua no. Se viceversa volete fargli un piacere, pensando di non farglielo, ditegli che è sempre sembrato, per dedizione e filosofia, un operaio specializzato. Vi sorriderà.

Udinese, poi Mantova, quindi Napoli e Juventus. E la Nazionale, naturalmente. Tantissima Nazionale. Unico italiano a essersi fregiato del titolo di campione d’Europa e del Mondo. Fu allenatore dell’Olimpica, di Juventus, Lazio, Italia, ancora Lazio, Fiorentina, fu presidente della Lazio di Sergio Cragnotti.
In copertina su «Newsweek» e sul francobollo di Renato Guttuso, con la coppa alzata come un’ostia. Di rare parole, così come, in campo, di pochi gesti: quelli, indispensabili, per sentirsi prezioso. A Napoli rimase cinque stagioni, dal 1967 al 1972. Al Mantova andarono 120 milioni e un altro portiere, Claudio Bandoni. Memoria storica e romantica, Mimmo Carratelli ricorda che lo soprannominarono «Batman». «Che esagerazione», brontolò, «Sono un uomo dei campi, sono un contadino, parlo poco. Da ragazzo mi sentivo già un uomo di mezza età».

Al San Paolo, allora si chiamava così, disputò una delle più brillanti partite in azzurro, Italia-Bulgaria 2-0. Venne ceduto alla Juventus nell’estate del ‘72, per 320 milioni. Si narra che Italo Allodi, cazzeggiando con i giornalisti attorno alla mezzanotte del penultimo giorno di mercato, a un certo punto buttò lì: «Ah, scusate. Dimenticavo: abbiamo preso (anche) il portiere».
Repertorio inglese, alla Gordon Banks, la sua bussola, e quel missile di Arie Haan che lo avrebbe inseguito, scortato e minacciato dal 1978 alla paratissima su Oscar, nel 1982. All’epoca, il direttore della «Gazzetta dello Sport» era Gino Palumbo. Folgorato dalla bellezza selvaggia di quella parabola, lanciò sull’illustrato della «rosea» una classifica legata, proprio ed esclusivamente, ai gol «da lontano». Non tanto per canzonare Zoff, quanto per esaltare l’arte di gittate così balisticamente eretiche. Dino non gradì. Si ritirò sotto la tenda. Brusco, permaloso, licenziò l’episodio. Fino al 25 marzo del 1987. Era il ct dell’Olimpica, qualificazioni per i Giochi di Seul. Trasferta a Magdeburgo, Germania Est-Italia (0-0). Sulla via del ritorno, tappa all’aeroporto di Schoenefeld a Berlino Est. Il muro doveva ancora cadere. In attesa dell’imbarco, si disserta del più e del meno.

D’improvviso, la confessione: «Perché sì, se a Buenos Aires contro gli olandesi non fossi stato così imbranato, in finale, con l’Argentina, ci saremmo andati noi».
Erano passati nove anni. Non ne aveva mai accennato. Non lo aveva mai ammesso. Restammo tutti di stucco. Lontano per indole dal galateo acrobatico di Ricky Albertosi, preferitogli nell’epopea messicana del ‘70, Zoff dava sicurezza anche nelle insicurezze che sapeva celare. Ai giovani portieri rimprovera la rinuncia alla presa, che considera una fuga dalla realtà: molti, fra i pali e nella vita, preferiscono rinviare, temporeggiare, deviare, come se avessero paura d’investire sugli attimi, come se preferissero rimandare le decisioni. E al diavolo gli alibi: la foggia del pallone, le troppe notturne, le troppe partite. Cominciò senza guanti, finì con: un italiano di confine, vicino al dovere e lontano dal potere. Solitario y final ma triste proprio no.

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