Il dribbling, un prigioniero che ogni tanto si prende un’ora “d’area”
Il dribbling è poesia, e la poesia crea spesso imbarazzo. Non è quantità, è qualità. E, di conseguenza, attimo.

©️ “MURIEL-DEMME” – FOTO MOSCA
Il dribbling è poesia, e la poesia crea spesso imbarazzo. Per alzata di mano, tutti la adorano. In cabina, a tendina tirata e lapis fremente, molti di quei tutti la manderebbero cordialmente al diavolo. Lo schema sta al semaforo come il dribbling alla rotonda: nel primo caso, autorità; nel secondo, responsabilità.
Occhio: scartare non significa evadere, eludere. O, peggio, sfuggire ai propri doveri. Al contrario. È un modo per guardare in faccia la vita e gli ostacoli che semina, con l’intento, nobile e palese, di saltarli senza sovvenzioni ”statali”. Il dribbling, se sguainato a tempo e a luogo, rimanda al celeberrimo motto di John Fitzgerald Kennedy: “Non chiederti cosa il tuo Paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. Basta cambiare Paese con allenatore. E porsi la stessa domanda. Il dribbling non sarà “la” risposta, ma «una».
Dribblava Pier Paolo Pasolini detto “Stukas”. Omar Sivori si era inventato il tunnel, all’interno del quale i sogni assumevano le sembianze del ghigno, dello sberleffo, dello sgarro. Da Lipsia-Atalanta affiora il gol di Luis Muriel, bello proprio perché il colombiano se n’è bevuti un paio, cosa che i centravanti non fanno più, e non solo perché astemi: le lavagne non vendono “alcolici”, suggeriscono tisane di passaggi e passaggetti che portano oltre, senza però regalare il brivido dell’emozione. Lo schema è la camicia di forza che aiuta a essere saggi. Il dribbling è la forza che spinge ad abbandonare la gonna materna, rifugio sicuro e prezioso, ma noioso.
A Cremona, in Serie B, sbuffa Gianluca Gaetano, classe 2000, scuola Napoli. Non ha paura. Gli piace dondolare, osa e non posa, all’Alessandria ne ha rifilato uno ancheggiando in una selva di angeli non proprio custodi. A Parma, sempre fra i cadetti, ce n’è un altro: Adrian Bernabé. Spagnolo di vent’anni, primi calci da Barcellona a Manchester, chez Pep. Nella trasferta di Cosenza, di gol ne ha realizzati due, addirittura, ma è il secondo che giro al vostro palato: fuori uno, fuori due, fuori tre (di lato) e palla nell’angolo. Olé. I paragoni corrono e sgomitano fino a disturbare la pennica parigina di Leo Messi, e questo è francamente troppo. Brilla e avanza l’eresia dell’atto, il senso anti-conformista di un gesto che nei vivai è stato confinato al muro del bando. E che Dante avrebbe così descritto: “Ed elli avea del cul fatto piroetta”.
Va di moda l’azione «alla mano», tipo rugby, in cui la squadra si sposta da una metà campo all’altra, ligia al palleggio e alle sovrapposizioni. Sfidare l’uomo viene preso come un attentato al magistero del tecnico. Il tiki-taka ci ha reso più uguali ma anche più banali, se non sei Andrés Iniesta. Il dribbling è la bussola che solo gli audaci scrutano. Merce rara, rimane un esperanto. Per fortuna. Non c’è bisogno di tradurlo, non serve un vocabolario. È come la musica. Basta “cantarlo”. Non è quantità, è qualità. E, di conseguenza, attimo. Si spegne in fretta. Ma può bruciarti: penso alla fuga in “io maggiore” di Jérémie Boga in Bayer Leverkusen-Atalanta. Un surfista fra le onde, sulla tavola del suo estro, della sua abilità. Lontano dalle acque territoriali di Gian Piero Gasperini: che mai si sentirà offeso da un simile affronto.
Come l’equilibrio è virtuoso e l’equilibrismo ambiguo, così il dribblatore è un valore e il dribblomane un prezzo. Resta la libertà selvaggia del rito, dell’azzardo, della finta (che è fingere per sentirsi veri). È il calcio di strada. Di quando si era più bulli che brulli e ci si commuoveva per frasi come questa: “For your tomorrow we gave our today”. Per il tuo domani noi abbiamo dato il nostro oggi.