Calcio, quelle “piazzate” dei bambini che ci riportano alla poesia degli oratori

In un Paese normale non sarebbe accaduto quello che è capitato a Roca Vecchia: bambini che giocano a calcio in piazza, il sindaco lo vieta.

Articolo di Roberto Beccantini15/08/2022

© “SERIE-A” – FOTO MOSCA

In un Paese normale non sarebbe mai successo quello che è capitato a Roca Vecchia, località costiera del Salento, nel comune di Melendugno, in provincia di Lecce: bambini che giocano a calcio in piazza, il sindaco che li respinge e lo vieta. E questo, quando si dice il destino, proprio a ridosso dell’inizio del campionato. Non sarebbe mai successo – né succederebbe – perché ogni Paese normale consegnerebbe ai suoi bambini uno spazio per segnare, e per sognare. Nel rispetto delle leggi, al netto dei vetri (e cuori) infranti.

Sono molte le canzoni che coinvolgono e pattugliano le piazze. Lucio Dalla ha cantato la sua Bologna e uno dei suoi salotti più intimi. Era il 1972. «Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è/sulle panchine in Piazza Grande/ma quando ho fame di mercanti come me qui non ce n’è/dormo sull’erba e ho molti amici intorno a me/gli innamorati in Piazza Grande/dei loro guai, dei loro amori tutto so, sbagliati e no». Antonello Venditti si cimentò in «Bomba o non bomba», era il ‘78: «A Sasso Marconi incontrammo una ragazza/che viveva sdraiata sull’orlo d’una piazza/noi le dicemmo vieni dolce sarà la strada». Rimane struggente la serenata che dedicò a Campo de’ Fiori, alveare laborioso della sua Roma: «Campo de’ fiori io non corro più/sulle strade di ieri/il tempo ha già sconfitto/i soldi di papà/ma le partite stavolta sono proprio vere/e adesso ho un po’ paura per la libertà/i tuoi bambini io li vedo crescono bene/rubano sempre ma non tradiscono mai. Oh mai, oh mai/adesso ho un po’ paura per la libertà».

La piazza è diventata, nel tempo, una sorta di metafora, non più distesa di pietre su cui passeggiare o asfalto da cui scappare, ma punto d’incontro e di scontro, di salmi e di salme, di preci e di vaffa (alla Beppe Grillo). Il pallone no, però: e non solo in nome del politicamente corretto. Sarebbe pericoloso. Il problema è che un bambino, dal Sud al Nord, per giocare non dovrebbe rifugiarsi lì.

Chi scrive, più fortunato, aveva gli oratori, i campetti spelacchiati della sua parrocchia, San Cristoforo a Bologna, dove i calzettoni giù bastavano per immaginarsi Omar (Sivori).
L’oratorio era partecipazione, come la «libertà» di Giorgio Gaber, e il parroco un arbitro unto (non sempre) del Signore, a seconda di come fischiava. Ecco: gli oratori non ci sono più, scavalcati dalle scuole calcio, dove si paga e per questo i genitori si danno di gomito e strepitano affinché il diletto pargolo sia titolare, sempre.

Eduardo Galeano, romanziere uruguagio tra i più fecondi e i più calciofili, ha scritto: «Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle: “Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?”. “Non glielo spiegherei” rispose. “Gli darei un pallone per farlo giocare”». La «piazzata» dei ragazzi della via Pal salentina colpisce, incuriosisce e non può non strappare un brivido forte. Per carità, non sono questi gli argomenti che squassano la storia, c’è molto di peggio e molto di più urgente, ma il diritto allo sport dovrebbe essere il dovere di ogni Stato che non si sia ridotto, esclusivamente e malinconicamente, al participio passato di un verbo.

Lo spazio è fondamentale e vitale non tanto perché lo insegnano nelle aule di Coverciano, lo è a prescindere, appena si nasce e non appena si lascia la culla per buttarsi su quella avventura folle e misteriosa che sarà l’esistenza. Salento e memento, dunque. Là dove c’era l’erba, l’importante è che di «erba» non si faccia nessuno. I palloni non sono mai gonfiati, quando li rincorri con l’innocenza dell’età che ti presenta al mondo. Ma la piazza no, d’accordo. A patto che, per una volta, si resti (o meglio, si torni) al verde.

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