Ieri, oggi, Marani: quando i giornalisti salgono sull’altra parte della barricata
Con Matteo Marani al vertice della Lega Pro i giornalisti vil razza dannata - o d’annata, a seconda dei gusti - sono saliti sull’altra parte della barricata.

Con Matteo Marani al vertice della Lega Pro i giornalisti vil razza dannata – o d’annata, a seconda dei gusti – sono saliti sull’altra parte della barricata. Bolognese come il sottoscritto, Matteo è stato mio direttore al «Guerino» e, dunque, il conflitto d’interessi m’impone di dosare gli sbuffi d’incenso. Rimane valido e suggestivo, se mai, l’aggancio a una categoria che, nei secoli, non si è limitata a «descrivere» la storia dello sport ma talvolta l’ha addirittura «scritta».
Il primo che mi viene in mente è un francese, Gabriel Hanot. In gioventù, terzinaccio della Nazionale, poi ct dei bleus e, infine, cronista de «L’Equipe» e «France Football». S’inventò la Coppa dei Campioni e il Pallone d’oro: eravamo a metà degli anni Cinquanta e per l’Europa dell’epoca, vaga stella dell’Orsa, furono rampe preziose verso uno stato dell’unione che avrebbe costituito il nocciolo della politica – e delle risse – a venire.
Noi si risponde con il massimo dei massimi, Vittorio Pozzo. Niente meno. L’alpino «comandante» dell’Italia campione del Mondo nel 1934 e 1938, unico «mister» a fregiarsi di cotanta doppietta, e dell’Italia medaglia d’oro all’Olimpiade di Berlino 1936, i Giochi di Jesse Owens, Ondina Valla e del Fuhrer. Per la cronaca, e non solo, Pozzo fu anche inviato e opinionista de «La Stampa».
Lo lessi avidamente dal Bernabeu di Madrid dopo un clamoroso 1-0 di Omar Sivori, risultato che aveva rovesciato lo 0-1 dell’andata e condotto Real e Juventus allo spareggio di Parigi, domato dai blancos tra sangue e arena. Era il febbraio del 1962, erano i quarti della Coppa delle squadre campioni, lontana, lontanissima dall’accozzaglia odierna.
Da direttore di «Tuttosport» a direttore generale della Lega Calcio e presidente della Fiorentina: Pier Cesare Baretti era di Dronero, provincia di Cuneo, come Ezio Mauro. Alla Confindustria del pallone lo aveva voluto, fortissimamente, Tonino Matarrese. Portò equilibrio e, soprattutto, eleganza. Alla Viola non ebbe altrettanta fortuna: il proprietario, conte Ranieri Portello, avrebbe voluto promuovere Claudio Nassi, il manager che aveva bloccato Marco Van Basten (!). Nassi preferì restare al suo posto e così toccò a «Pierce».
Improvvisamente, l’ordine dall’alto: dal Marco olandese a Stefano Rebonato. Nassi si dimise. Lo ricordo fior giornalista a «Tuttosport». Lavorammo insieme, dirigeva la serie C, mi spalancò l’atmosfera di uno degli stadi più foscoliani, il Sant’Elena di Venezia. Il cigno di Utrecht finì all’albeggiante Milan di Arrigo Sacchi, e il destino s’impennò come un puledro imbizzarrito. Baretti aveva la passione del volo. Gli fu fatale il 5 dicembre 1987, un sabato di azzurro a San Siro (3-0 al Portogallo) e di nebbia a Piossasco.
Albo Bardelli, livornese, gran chiosator dei chiosator di «Stadio» e della «Gazzetta dello Sport», fece parte del sinedrio tecnico che battezzò e scortò la Nazionale al Mondiale in Brasile, nel 1950. Con le drammatiche cicatrici di Superga ancora sulla pelle e nel cuore, si batté per la traversata in nave. L’ebbe vinta. Ma, sul campo, fu un disastro. A casa, subito.
Con Joao Saldanha si entra in una dimensione quasi onirica. Avrebbe dovuto guidare il Brasile dei cinque numeri dieci al Mondiale del 1970, in Messico, il Brasile di Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelé, Rivelino. Ci andò vicino. Nel senso che annichilì gli avversari nelle partite eliminatorie, salvo litigare con Emílio Garrastazu Médici, spudorato dittatore in cravatta e stivali, ed essere sollevato dall’incarico proprio alla vigilia della spedizione, sostituito d’urgenza da Mario Zagallo. Tanto per rendere l’idea dell’uomo e dello spirito del tempo: ««Chi sceglie i giocatori sono io, quando il presidente scelse i suoi ministri non chiese la mia opinione».
Durò 400 giorni. Andrea Schianchi, scrittore e firma della «rosea», gli ha dedicato un libro: «Il comunista che allenò Pelé». Perché sì, Joao era di sinistra, e nella conferenza stampa d’insediamento declamò la formazione che, un anno dopo, avrebbe alzato la terza Coppa Rimet. Fumatore accanito, morì a Roma il 12 luglio 1990, fra notti magiche e cicche tragiche. Tutto si potrà dire di lui, tranne che abbia venduto fumo.