Napoli, fra la rabbia degli statistici e l’onore che le ha fatto Paulo Sousa
Per il Napoli il dado è tratto da mesi e non c’è Rubicone che non somigli a un innocuo rigagnolo. Al diavolo malinconie e scaramanzie.

©️ “NAPOLI-SALERNITANA” – FOTO MOSCA
«Tertium non datur», stando al latinorum di Claudio Lotito. Il fatto che non sia successo, significa che è successo troppo. Il «Maradona» tutto in ghingheri; Aurelio De Laurentiis in tribuna con famiglia e famigli; il popolo adorante; la notizia che l’Inter aveva rimontato e sconfitto la Lazio di Maurizio Sarri, ex dal cuore (forse) d’oro. Non è bastato bombardare la Salernitana. Nel basket, una partita del genere sarebbe finita di quaranta punti, come minimo, per il Napule. Ma il calcio è altra roba. E’ nato con i piedi, cresciuto con le traverse, invecchiato tra i fischi e i fiaschi degli arbitri.
Miglior attacco, miglior difesa, capocannoniere (Victor Osimhen). Morale: 1-1 e «coitus interruptus». Fino, almeno, alla trasferta di Udine. Il gol del primo scudetto, il 10 maggio 1987 contro la Fiorentina di Roberto Baggio, lo aveva firmato un attaccante: Andrea Carnevale. Finì 1-1. La rete del secondo, il 29 aprile 1990 contro la Lazio, la siglò un difensore, Marco Baroni. Terminò 1-0. L’onore del terzo sarebbe toccato a un terzino, Mathias Olivera. Lo sparo «sinistro» di Boulaye Dia, franco-senegalese di falcata arrogante, non ha rimandato i botti: li ha sospesi, li ha allungati.
Tutti pagherebbero per nascondersi tra la barbetta di Khvicha Kvaratskhelia o dietro la maschera del Totem africano, così delusi e così contenti. Il calendario, ormai, sembra Dorando Pietri: barcolla, al posto del traguardo scorge un calvario. L’aritmetica, quella, continua a dimenarsi sulle barricate, sforacchiata e mortificata. Capace, pur di far sentire i propri rantoli, di accentuare il vantaggio sulla seconda ma di impedire ai camerieri di servire lo champagne in frigo da marzo. O da febbraio?
Se fossi un tifoso partenopeo, scioglierei inni alla squadra di Paulo Sousa, approdata al nono risultato utile consecutivo. Non ha porto l’altra guancia. Ha rischiato il naufragio per forza e non per scelta, come capita spesso a fine stagione. Le vittime designate non si contano. C’è qualche eccezione, l’Inter del 2008 che pareggia a San Siro con il placido Siena, anche perché Marco Materazzi sequestrò un rigore che non toccava a lui e lo sbagliò, trasformando l’allenatore, Roberto Mancini, in un ultrà. Era la penultima: si festeggiò a Parma, sotto il diluvio.
Ci sono poi la tranvate che hanno fatto storia, e diffuso tante storie, sfide diventate incubi e miraggi. L’Inter del Mago che perde a Mantova e spalanca la vetta alla Juventus heribertiana; il Milan del Paron che si disintegra a Verona e lascia il titolo alla Vecchia; la Juventus della Triade che affoga nella piscina di Perugia e consegna la corona alla Lazio; l’Inter, ancora, che si fa rimontare dalla Lazio all’Olimpico e, tra le lacrime del Fenomeno, cede lo scettro a Madama. Quelli sì, furono incroci roventi e cruenti, staffette di emozioni, di episodi. E di scomuniche.
Non il pari del «Maradona». Può essere che la pressione e la passione abbiano zavorrato l’equipaggio dell’autostoppista di Certaldo. Il dado è tratto da mesi e, dunque, non c’è Rubicone che non somigli a un innocuo rigagnolo. Al diavolo malinconie e scaramanzie. Ogni giornale, ogni televisione, ogni sito ha pronte paginate e paginate di legittimo incenso. Certo, per i menabò e le agenzie di allunaggio sarebbe stato meglio ieri, nell’arena intitolata al Genio che, nel Novecento, scortò la città e la società oltre i luoghi comuni del Sud lavativo e purgativo. Dal Rione Sanità ai Quartieri Spagnoli, da Mergellina a Posillipo, non aspettavano che un cenno. Trentatré anni e qualche giorno dopo, e senza il record dei sei turni «prima», pigoleranno i topi d’archivio. Ma andassero a quel paese.