Antognoni 70: portò un bacione (e un campione) a Firenze

Quando compie gli anni una bandiera, tutti sull’attenti. Lunedì 1° aprile, Giancarlo Antognoni ne fa 70. Il ragazzo che giocava guardando le stelle.

Antognoni
Articolo di Roberto Beccantini02/04/2024

Quando compie gli anni una bandiera, tutti sull’attenti. Lunedì 1° aprile, Giancarlo Antognoni ne fa 70. Umbro di Marsciano, milanista di padre e riveriano di vocazione. Subito l’idea del calcio che lo avrebbe sedotto e condotto. Lo notano al Torino, finisce in Piemonte. Ad Asti, però: al MaCoBi, in serie D. Sfugge ai radar della Juventus, finché, nel 1972, non lo recluta la Viola. La Fiorentina del presidente Ugolino Ugolini e di Nils Liedholm. Debutto a Verona, il 15 ottobre del ‘72. Vladimiro Caminiti – giornalista di «Tuttosport», scrittore e poeta dalle visioni suggestive e fuggitive – gli dedicò una splendida frase: «Il ragazzo che giocava guardando le stelle». La testa alta, la pupilla vigile, quel naso un po’ cannocchiale e un po’ timone.

Nei secoli devoto, se escludiamo l’esilio svizzero di Losanna, al crepuscolo della carriera: dal 1972 al 1987, Firenze. Il giglio come tatuaggio e lo spazio solcato dal suo calcio netto, pulito, tranciante. Le cifre lo accreditano di 72 gol in 429 partite. E di una Coppa Italia, una sola. Stagione 1974-’75, finale con il «suo» Milan: 3-2 all’Olimpico di Roma. Gli manca terribilmente lo scudetto, sfiorato nel 1982, al culmine di un romanzesco e velenoso sprint con la Juventus.
Mezzala, rifinitore, stoccatore. Le pause classiche degli illuministi che non possono, a ogni comizio, offrire slogan capaci d’infiammare le piazze. Ma ai quali basta un lancio per accendere il popolo; e la fedeltà alla causa, per non spegnerne i bollori nei periodi in cui non si riesce a essere né re né regicidi.
In regime di vincolo era più facile restare attaccati ai pennoni, ma le lusinghe crepitarono. E le tentazioni, pure. Il destino, invidioso, lo aspettava a varco. Il 22 novembre del 1981, nel pieno del duello con la Thatcher sabauda, il portiere del Genoa, Silvano Martina, gli zompò addosso procurandogli una frattura cranica e lo stop del battito cardiaco. Dalla morte che lo aveva ormai ghermito lo salvarono due angeli: il medico del Grifo, Pier Luigi Gatto, e il massaggiatore della Fiore, Ennio Raveggi. Arbitrava Paolo Casarin. Lo spirito dell’epoca, tollerante e liberista, lo indusse a un errore marchiano: non fischiò. Oggi, con l’involontarietà agli arresti domiciliari, avrebbe decretato rigore ed espulsione (di Martina). Suo malgrado, «Antogno» diventò così simbolo di uno scorcio storico che privilegiava l’istinto belluino delle difese.

E poi la Nazionale. Aveva i «piedi buoni» e, per questo, Fulvio Bernardini gli affidò la fase – cruciale, confusa – del dopo «Azzurro tenebra» (Gigi Riva, Sandro Mazzola, Rivera: tutti a casa). Battesimo a Rotterdam, il 20 novembre 1974, contro l’Olanda di Johan Cruijff: 3-1 per i batavi, ma il «sospetto» che da quel numero, e da quei numeri, non si fosse alzato solo fumo. La consacrazione venne con Enzo Bearzot. Titolare nel 1978, in Argentina, Italia quarta. Titolare nel 1982, in Spagna, Italia «campeon». Ma spesso in bilico, come se gli dei, capricciosi, avessero deciso di contenderselo. Prova ne sia il pestone polacco che lo escluse dalla finale dell’11 luglio ‘82, contro i tedeschi. E il fuorigioco (inesistente) che il 5 luglio gli aveva negato il 4-2 al Brasile: forse perché avrebbe profanato il tempio della tripletta di Paolorossi.

Nei panni di dirigente (della Viola) fu un Antognoni minore, non certo in linea con le emozioni e le soluzioni che gli venivano naturali dal campo. Da capitano, era lui a possedere il «portafogli». Da dipendente, viceversa, erano i Cecchi Gori. Con i quali (Vittorio, specialmente) non fu sempre amore. Non ci rimane che Dante. Dove avrebbe inserito Giancarlo? A naso, tra gli Spiriti militanti del Paradiso.

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