Anno nuovo: cin cin ai «militi ignoti» dello sport

Un cin cin alle persone che fanno sport o lo dirigono in una clandestinità non dovuta alla voluttà di apparire, ma alla volontà di essere.

Articolo di Roberto Beccantini03/01/2022

Da tutti i postulanti che assillano l’anno nuovo, sperando di spremergli il massimo per sé e il minimo per gli altri – l’agonismo, ahimè, è gelosia, non solo poesia – da tutta ‘sta gente che smercia clave per fioretti, e pure ci gode, preferisco tenermi alla larga e parlarvi dei «militi ignoti». Sono le persone che fanno sport o lo fanno fare o lo dirigono in una clandestinità non dovuta alla voluttà di apparire ma alla volontà di essere.

Alludo al piccolo che sogna dribblando (o saltando o andando a canestro o correndo). Ai genitori che accettano la panchina imposta al pargolo senza trasformarsi in ultrà e dare la caccia all’allenatore cinico e baro. Ai tifosi che, nella più scalcagnata borgata, rispettano i fischi (contrari) di un giovane arbitro che la passione – e non altro, per ora – ha spinto a diventare superiore a tutto e non, semplicemente, a tutti. Ai dirigenti che, vivendo per insegnare, preferiscono essere ricordati piuttosto che farsi notare.

E’ un’Italia sommersa che pulsa e alla quale ogni tanto il cuore smette di battere. Per fortuna, se le tasche sono deboli, lo spirito rimane forte e, così, basta un profondo «messaggio» cardiaco per riprendere, per non mollare, per continuare a resistere dentro le difficoltà e non ad arrendersi dentro i privilegi.

Quei cognomi – raminghi, laboriosi, generosi – ai quali la fame di fama nega il privilegio del «nome», tutti concentrati come siamo sui Grandi Fratelli o le Isole dei famosi, il modo più spiccio per spiare ed essere spiati. Immagino gli sconquassi che il Covid ha procurato alla base, là dove il duello è sudore e non ancora onore, bussola e non ancora meta. Gli «ordinary people» costretti alla mascherina, mai però alla maschera.
«Dilettanti allo sbaraglio» è ripostiglio di luoghi comuni, di professionalità irrisa, di motteggi urticanti. Quando, invece, il dilettante ha scelto proprio lo «sbaraglio» per coltivare la gioia per un gioco che, solo in pochissimi casi, e per rarissimi eletti, si trasformerà, un giorno, in Giochi.

E’ la somma di cronache silenziose. E’ la storia di coloro che aiutano i disabili a non sentirsi «diversi», e spingono i normali a ribellarsi alle lusinghe di non compiere passi per paura di cadere, o di far cadere. «Quando suona il campanello della loro coscienza, fingono di non essere in casa», celiava Leo Longanesi. Uno che gli italiani li conosceva.

Certo, il pericolo di liquidare un mondo in un articolo, questo, e poi dedicarsi a dove andrà Lorenzo Insigne o Alvaro Morata esiste, ed è tentazione grave, prospettiva ambigua, per chi, come il sottoscritto, dovrebbe servire in tavola l’intera torta e non solo una fetta. Leccare è comodo: e spesso conviene. Scavare è faticoso: e spesso disturba. Una volta c’erano gli oratori, oggi ci sono le scuole calcio. Nel Novecento, il primo osservatore era il parroco e il sogno era gratis. Oggi non si osserva più: si spoglia famelicamente alla ricerca di tracce che portino a un tesoro. E il sogno si paga, non è più gratis.

La nostalgia non c’entra niente. Bob Dylan la detesta: «Preferisco vivere il momento che farmi prendere dalla nostalgia, che per me è una droga, una vera droga, di quelle che si iniettano in vena. E’ vergognoso. La gente si fa di nostalgia come se fosse morfina. E io non voglio esserne lo spacciatore».

Ops. Versi diabolici. Pietre rotolanti. Il morbo infuria, il pan ci manca (o manca a molti) e allora, caro 2022, evitaci almeno l’onta che sul ponte sventoli bandiera bianca.

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