Napoli-Liverpool: musica, maestri, fra «‘O sole mio» e «Let it be»
Musica, maestri. Napoli-Liverpool di Champions è ormai un classico. Proviamo a uscire dagli steccati del «puro» calcio, proviamo a tradurla nei brividi dei suoni delle canzoni, degli inni.

© “STADIO” – FOTO MOSCA
Musica, maestri. Napoli-Liverpool di Champions è ormai un classico. Proviamo a uscire dagli steccati del «puro» calcio, proviamo a tradurla nei brividi dei suoni delle canzoni, degli inni.
Che sono ponti, non muri. Due città che la storia ha travolto e stravolto. Una segnata dal mare, l’altra da un fiume.
Se scrivi Napoli, è Napoli: non esistono altre squadre. Se scrivi Liverpool, occhio: c’è anche l’Everton, il cui appellativo – «toffees» – è trappola e non vetrina, tale e tanta è la rivalità che cova sotto le «caramelle», ribadita dal rusticano 0-0 nel derby di sabato.
Il simbolo canoro del Liverpool è diventato una sorta di passaporto trasversale e transnazionale. «You’ll never walk alone». Non camminerai mai solo. Tracima e trascina, è troppo bello per essere di parte. Risponde, Napoli, con «Un giorno all’improvviso», adottata e adattata da «L’estate sta finendo» dei Righeira.
Il paradosso è che la culla del pop ha prodotto un brano melodico e lo scrigno della melodia una ode al pop. «You’ll never walk alone» lo lanciò, in Europa, il gruppo Gerry and the Pacemakers. Di Liverpool, come i Beatles, i miei idoli.
E qui si entra nel vivo. «’O sole mio» (di Alfredo Mazzucchi ed Eduardo Di Capua) potrebbe e dovrebbe essere l’inno storico di Napoli e del Napoli. Lo è già a livello informale, con la voce di Luciano Pavarotti che scavalca le divisioni e moltiplica le emozioni.
Rhythm and blues. Rhythm and Reds. Quando si sparge per il campo – e lo impugna; e lo divora – lo squadrone di Jurgen Klopp procede al frastuono di «She Loves You».
Napoli affida la replica alle cadenze allegre di «’O surdato ’nnamurato» (Aniello Califano, Enrico Cannio). Come si fa, nell’invocare e rievocare i palleggi di Diego, a non accompagnarli con una «colonna» che sprona tutti – fra le zolle e sugli spalti – a esserne complici? E, soprattutto, felici: perché il calcio è sorriso, oltre che metafora di guerra.
Johan Cruijff, che ha «cantato» l’Ajax sui testi di Rinus Michels, invitava i suoi a «divertirsi». Ripeto: Cruijff.
Ci sono poi i momenti in cui la trama spinge gli attori verso quel «facite ammuina» che Eugenio Fascetti chiamava «casino organizzato» e la Nasa de’ noantri ha tradotto in «pressing a strascico» (ma va!) o, più terra terra, in tutti avanti o tutti indietro.
Attimi, scorci, periodi che imprigionano le pulsioni, quei faccia a faccia che sequestrano l’arena e fanno, degli spettatori, testimoni e ostaggi. E’ l’ora di «Yellow submarine» e «Funiculì funiculà» (Luigi Denza, Giuseppe Turco).
Napoli, Liverpool. Come un film d’avventura. Come un libro che divori perché scritto da un autore di cui ne hai letto un altro e ti è piaciuto. Si tratta di metterne in note le fasi: quelle, in particolare, in cui la quiete prima della tempesta (e non leopardianamente dopo) semina chiodi tattici, distribuisce equilibri falsi, implora mosse stringenti.
Con l’arbitro che scorta la partita senza scivolare, o far scivolare, e con i due «eserciti» che, sulle gradinate, si temono e, per questo, si rispettano. Ecco «Napule è» di Pino Daniele e «Yesterday»: mai significheranno inciucio buonista, demagogico.
«Imagine» di John Lennon la tengo per il gran finale: comunque si annunci l’esito. Con «Torna a Surriento» (Ernesto e Giambattista De Curtis) a calcare l’eredità sentimentale dell’ordalia. Perché lo sport è andata e ritorno, è immaginazione (e non solo immagine, per fortuna).
Sullo sfondo, magari, di una «Luna rossa» (Vincenzo De Crescenzo, Antonio Vian) che, per una volta, non riguarda la mitica Kop. E a coloro che vanno a caccia del pronostico per mercoledì, suggerisco il fatalismo dei Fab four: «Let it be». Lascia fare. Non è fuga. E’ sogno.