Fuorigioco: meglio un po’ di «luce» che il buio del capezzolo semi-automatico
Il lungo viaggio dell'offside si invola verso una nuova tappa: il buio semi-automatico ha avuto vita breve, che si ritorni alla "luce"!

«Et fiat lux». E sia la luce. Con il latinorum di Claudio Lotito suona meglio. È una svolta, riguarda il fuorigioco. Questo isterico e sclerotico fantasma che ci accompagna sin dalle prime, caste, moviole di Carlo Sassi e Heron Vitaletti. Siamo arrivati, con il silenzio-assenso di un popolo sfibrato da troppe versioni e troppe revisioni, all’innesco semi-automatico concepito tra gli alambicchi dei Cagliostri e dei Frankenstein tramanti nei laboratori del regolamento.
In un calcio che, dopo le notti magiche (meno una) del Mondiale 1990, aveva disarmato i difensori e consegnato il potere agli attaccanti, il «viaggio» dell’offside – come e più delle peripezie dei «mani-comi» – è diventato il simbolo di un’odissea normativa ai limiti dell’assurdo. In principio, all’epoca di Zdenek Zeman e Arrigo Sacchi, era da arresto chiunque si trovasse oltre il penultimo difendente, non importa se a un chilometro dall’azione. Poi si è passati al liberismo più sfrenato, frutto della voluttà carnale di moltiplicare i gol, comunque e dovunque: in pratica, si puniva «solo» chi, in posizione irregolare, toccava la palla. Non già il turista che si trovava in traiettoria; non il pendolare che rientrava, in maschera, da una camminata proibita. O ostruiva il portiere. Non si uccideva il «fuorigioco passivo». Al contrario: lo si eleggeva a totem esistenziale.
Alla caccia di misure e strumenti tali da ridurre la zona ambigua della discriminazione, si privilegiò l’idea di un filo di «luce» (eccoci) tra i giocatori. Se c’è, altolà; se non c’è, via libera. E nel dubbio, non si sbandieri (Paolo Casarin). Il criterio era stato abbandonato perché foriero di viscerali dispute legate all’anatomia (dei toraci) e all’anomalia (delle diottrie). Piano piano, la Fifa ha accettato la pagliuzza del fuorigioco all’alluce, con le linee tracciate in sala Var, sino all’esplosione della semi-automaticità (un ossimoro, quasi).
Morale della favola: da una parte, la bulimia orgiastica di gonfiare i tabellini a suon di reti; dall’altra, improvvisa e letale, la dieta elettronica che, per metà scapola o metà piede, smagrisce la «pancia» del peccato, rendendola un mucchietto di ossa moviolesche. Un trasloco grottesco verso eccessi capziosi e brutali, con la mannaia della tecnologia a ghigliottinare lo spirito dei padri fondatori. Che erano carabinieri, non aguzzini.
Per fortuna, a Zurigo starebbero (ri)pensando di riesumare il concetto di luce. Scrivo «per fortuna» dal momento che lo condivido. Tranquilli, le polemiche non tramonteranno. Torneremo a scannarci su «quanta» ciccia serva per far scattare l’anti-furto degli assistenti, con l’augurio che la flagranza ci regali il fuorigioco di Miroslav Klose in un Bayern-Fiorentina 2-1 di Champions che il norvegese Tom Henning Øvrebø e i suoi collaboratori clamorosissimamente ignorarono. Non c’era solo Klose, per la cronaca, ma tutta la sua famiglia. Andata degli ottavi, 17 febbraio 2010: sarebbe stata la pugnalata decisiva. Senza se e senza Var.
L’attuale dispositivo, accettato a suffragio universale – «credo quia absurdum», credo perché è assurdo – costituisce un’aberrazione geografica, tattile e tecnica. Se di mezzo c’è una scarpa, l’attaccante non bara e il difensore non dorme. È una piuma obbrobriosa che non rispecchia il messaggio che emerge dai sacri testi. Se fin dalle origini si fossero perseguiti scrupoli così radicali, così bestiali, l’impiego delle braccia non avrebbe suggerito ai legislatori il confine che separa la volontarietà dalla involontarietà, dogana oggi letteralmente allo sbando.
I gol s’impenneranno di nuovo per la libido dei guardoni. Pazienza. Meglio la luce fra i corpi che il buio di un capezzolo appena «al di là». E il kamasutra non c’entra.