Che barba, questo fair play: non è una regola, dipende da noi (più che dall’arbitro)

Che barba, questo fair play. Non si capisce più niente, anche perché ognuno tira la giacca della morale dalla parte del suo moralismo.

Di Bello, fair playFoto Mosca
Articolo di Roberto Beccantini11/03/2024

Che barba, questo fair play. Non si capisce più niente, anche perché ognuno tira la giacca della morale dalla parte del suo moralismo. Il pasticciaccio brutto di Lazio-Milan 0-1 di venerdì 1° marzo ha rilanciato l’argomento in grande stile. Riassunto volante: in un contrasto a metà campo va giù Valentin Castellanos detto Taty, colpito alla testa; l’arbitro, Marco Di Bello, gli dà le spalle e, dunque, non nota un tubo. Avanti. La palla rimbalza sulla linea laterale, Luca Pellegrini addosso a Christian Pulisic. L’americano, o non ha visto o simula di non aver visto: inforca la Vespa e vola verso Ivan Provedel. Il terzino, in versione Garrone, lo invita a desistere, ma quando capisce che quello col cavolo che desiste, lo placca e lo «falla». Giallo, il secondo, e quindi rosso: ineccepibile.

Basterebbe l’aggettivo: ineccepibile, ma siamo in Italia. E allora vai di insulti, di precedenti, di minacce. Il problema è a monte, al netto degli slogan che infestano pulpiti e loggioni, zuffe e baruffe. Pulisic non ha infranto nessuna regola. Il fair play non è una regola. Nel caso dell’Olimpico – come in tutti i casi assimilabili – l’ultima e decisiva parola spetta all’arbitro. Se ferma il gioco, ci si ferma; se non lo ferma, si continua. Di Bello non lo fermò, Pulisic continuò: amen. Il fair play è un gesto, un atto che va «oltre» la norma scritta. Sta dentro di noi, non dentro i sacri testi. In bilico, appunto, tra la sensibilità e il calcolo. Toccava a Pulisic, solo a lui, scegliere.

Il fair play dipende da noi

Mario Sconcerti, direttore tecnico ad honorem, criticò il titolo che l’Uefa di Michel Platini aveva dato alla sua crociata-riforma di carattere economico: «Financial fair play». Sbagliato. Significa specificare che siamo di fronte a qualcosa di parziale, quasi di volontaristico, e non a una legge promulgata e condivisa. Fuor di metafora: spendi quanto ricavi per spirito sportivo, non già per il dovere e l’obbligo che, spendendo quanto ricavi, salvaguardi l’equilibrio delle competizioni.

Spunta, dall’archivio, un episodio che coinvolge niente meno che Luciano Spalletti, nella sua mansione di «commissario» della Nazionale. Clausola o non clausola, Adl o non Adl, avvocati o non avvocati. Era il 12 settembre 2023, e a San Siro andava in onda Italia-Ucraina per le qualificazioni europee, poi felicemente (e faticosamente) centrate. Finì 2-1 per gli azzurri, con doppietta di Davide «Golia» Frattesi e gol di Andriy Yarmolenko. Ma non è questo il punto. Il punto è ciò che successe a ripresa inoltrata, quando la situazione proprio sotto controllo non era. Il protagonista è Willy Gnonto, in campo dal 58’ al posto di Mattia Zaccagni. A gioco interrotto, l’azzurro si ritrova la palla fra i piedi. Invece di allontanarla o mollarla lì, la offre agli ucraini, legittimi depositari, affrettandone il recupero.

Non lo avesse mai fatto. Dalla panca, l’abate di Certaldo insorge: «Ohi! Ohi! Non gliela devi ridare così veloce». Gli occhi spiritati, la voce grave, la pelata greve. Un cazziatone da «Ufficiale e gentiluomo» (ricordate?). Con la terna avulsa da qualsiasi tipo di condizionamento e/o coinvolgimento. Povero Gnonto. Il fair play è il cerino che passiamo libidinosamente nelle mani dei nostri antagonisti, nella speranza che lo spengano o si brucino loro. Gli stessi inglesi, maestri del calcio moderno, non si commuovono più di tanto. Dieci contro undici per un pugno di attimi: c’è di peggio, a questo mondo. Circolare, circolare.

Resta lo scarica-barile. L’allenatore della Lazio è Maurizio Sarri che, alla guida del Napoli, impose ai suoi di giocare nonostante la «morte improvvisa» di un dirimpettaio. Fair play o semplicemente play: Amleti di ringhiera e di tastiera, sbrigatevi.

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