Giorgio Gaber, gli arbitri e «gli amici al Var del Giambellino»
Se il Var, introdotto nella stagione 2017-2018, non gode di buona salute, non bisogna meravigliarsi. I motivi sono molteplici e, ahimè, sempre uguali.

©️ “ARBITRO-VAR” – FOTO MOSCA
Il suo nome era Di Bello Marco, ma lo chiamavan Iago, gli amici al Var del Giambellino dicevan che era un vago (era un vago). Per fortuna, in punta di parafrasi, ci aiuta Giorgio Gaber a cantare il bordello del nostro calcio, memore dei guizzi sessantotteschi di Herbert Pagani con il profetico «Io lavoro al Var di un albergo a ore, porto su il replay a chi fa l’errore».
Di Bello, cioè Milan-Atalanta 1-2 di coppa con tre episodi che infiammarono i maniaci del frame, senza che Paolo Valeri lo correggesse al video. Di Bello, quello di Juventus-Bologna 1-1 che non aveva colto il rigorone di Samuel Iling-Junior su Dan Ndoye in combutta con Francesco Fourneau e Luigi Nasca. Nasca, toh, che il destino avrebbe poi incollato allo schermo di Juventus-Verona 1-0 e allo scherno della simulazione di Davide Faraoni sul (secondo) gol annullato a Moise Kean per sbracciata del medesimo. E c’era ancora lui, Nasca, in Inter-Verona 2-1, a segnalare a Michael Fabbri il penalty di Matteo Darmian su Giangiacomo Magnani dopo avergli suggerito un supplemento d’indagine sulla sgomitata di Alessandro Bastoni a Ondrej Duda, rantolante e basculante, a monte del tap-in di Davide Frattesi: «Fischia, santo cielo, fischia».
Se il Var, introdotto nella stagione 2017-2018, non gode di buona salute, non bisogna meravigliarsi. I motivi sono molteplici e, ahimè, sempre uguali. In ordine sparso: 1) Si è alzata, presso i tifosi, la «percezione» di giustizia assoluta in relazione al supporto-conforto dello strumento tecnologico; pretesa che, a fronte di «certi» errori, scatena tumulti di turoniani processi (10 maggio 1981). 2) Mai dimenticare che, dietro e davanti al mezzo, rimane e opera l’uomo; con le sue diottrie, con la sua sensibilità, con la sua fifa (che non è quella di Gianni Infantino). 3) In alcuni casi (per esempio, il fuorigioco all’alluce), risolve; in altri, decide: non è la stessa cosa. 4) Il Var è una sorta di sceriffo «scientifico» al quale è stato affidato un pacchetto di leggi ondivaghe, di complicata «traduzione», penso al famigerato mani-comio; per cui, a parità di episodio, si può scegliere tra due buste (rigore, perché la distanza è ravvicinata ma il braccio largo; non rigore, perché il braccio è largo ma la distanza ravvicinata. 5) Gli arbitri, ecco lo snodo cruciale, continuano a non capire che, con il Var, si dirige in due; uno in campo, l’altro alla tv. Non sarà più come nel Novecento; per questo, urgono coppie affiatate, magari fisse (si potrebbe provare), capaci di domare il proprio ego a vantaggio del rendimento collettivo. Il «Lobellismo» e il «Collinismo» sono ormai polvere d’archivio; il ragazzo che comincia dovrà rassegnarsi a non essere più «solo al comando», etichetta dal fascino superbo, nostalgico. Non si volta pagina: si cambia libro.
Dividersi le responsabilità. Rendere i sacri testi meno arzigogolati (non proprio un retaggio dell’illuminismo, aver «stuprato» il concetto d’involontarietà). Non trascurare il fattore umano. Il Var non ha cancellato la sudditanza psicologica. L’ha combattuta. La combatte. Si farneticava che avrebbe raso al suolo i poteri forti, sterminato i sospetti, rilanciato la meritocrazia e, in particolare, ucciso le moviole. Al contrario: le ha rianimate e sparpagliate, ne ha accentuato l’effetto scenico e o-scenico. Crepitano come pallottole i moviolisti da Var Sport – in genere, ex arbitri a caccia di un quarto d’ora di visibilità – che valutano e pesano i moviolisti di Lissone. I carcerati di ieri, i carcerieri di oggi. Con i contributi dei filmati in arrivo dalle curve, nei secoli fedeli al fermo immagine che più fa comodo.
Siamo diventati tutti Varisti. Siamo riusciti, cioè, a triplicare il problema che volevamo risolvere. E mica è finita qui.