Verso Juventus-Napoli: Sarri a spasso tra barricate e palazzo
Maurizio Sarri, tecnico controverso e studioso, critica il calcio moderno, evidenziando la sfida di conciliare talento, tattica e cultura calcistica.

La necessità di una rivoluzione culturale. E’ una frase che gonfia la retorica dei dibattiti e decora la polpa dei comizi: dai salotti dei radical-chic ai bar degli aspiranti scienziati. Nella settimana di Juventus-Napoli ne ha discusso Maurizio Sarri in una intervista alla «Gazzetta». Si riferiva alla sua stagione bianconera, 2019-2020, molto sofferta (anche dentro, a naso) ma non futile. Anzi. Culminò nell’ultimo dei nove scudetti consecutivi. Con i 31 gol di Cristiano Ronaldo, «record» italiano, e Paulo Dybala «mvp» del campionato. Fatti, non parole (e neppure parolacce).
Il presidente era Andrea Agnelli. «Non era pronto, non erano pronti». Ha ragione, Maurizio. Oggi, invece, ci sono spiragli. Thiago Motta potrebbe goderne. Il triennio dell’Allegri bis ha vessato gli spasimanti di Madama. Se badi cinicamente al sodo, «devi» vincere: almeno nel tuo cortile. In caso contrario, giù sacramenti. Sarri ha 65 anni e non allena dal 13 marzo, quando mollò la Lazio, vinto da uno scoramento che coinvolgeva le frustrazioni di mercato e i petardi di uno spogliatoio sul punto di disfarsi: a fine corsa, per pura coincidenza (o no?), se ne sarebbero andati, in ordine sparso, Felipe Anderson, Luis Alberto e persino la statua simbolo, Ciro Immobile.
Il sarrismo fa parte della Treccani, e anche della nostra storia, summa di piccoli e grandi indizi a seconda delle tasche e dei sogni. L’Europa League alzata con il Chelsea nel 2019 ne incarna il modernismo trasversale, non meno degli schizzi pittorici del periodo sabaudo. A Napoli non lo dimenticheranno mai. A Torino, mentendo, giurano a chiunque e su qualunque cosa di averlo già rimosso. E’ uno studioso, la mania della tuta e la guerra alle cravatte lo hanno accompagnato e scorticato, e che ciò sia successo nella città che sdoganò il maglione di Sergio Marchionne, bè, non può non sollevare uno sbuffo di ilarità.
Fumatore accanito, smoccolatore seriale, il taccuino sempre in mano, un po’ per foga e un po’ per posa, il mestiere vissuto come una missione bellica, dalla gavetta fino a Omaha Beach, il 4-3-3 brandito e concepito per dare addosso all’aria fritta. Il suo Napoli rimarrà nella memoria «comunque», al netto degli zero titoli. E i 36 gol di Gonzalo Higuain costituiscono argomento di venerazione, oltre che di meditazione.
Bandiera di sinistra, ma poi, dopo il passaggio alla Juventus, banderuola di destra. Anti-potere e potere, un «C’era» Guevara perennemente in groppa a burrasche tattiche e palabratiche, pane al pane e tridente al tridente. Con Charles Bukowski a portata di metafora. Messo contro il «semplicismo» di Massimiliano Allegri, ha citato una strofa di Sua altezza: «Come diceva Johan Cruijff, non Maurizio Sarri, il calcio sarebbe semplice, ma far giocare un calcio semplice a una squadra è la cosa più difficile del mondo». Salvo invidiare Antonio Conte perché è bravo e perché è riuscito a svaligiare la tirchieria di Aurelio De Laurentiis.
Che discorsi. I piedi servono: e come. A patto che siano di qualità. Nel marzo del 1986, grazie ai buoni uffici del direttore sportivo Claudio Nassi, la Fiorentina aveva in pratica arruolato Marco Van Basten. All’ultimo momento, la famiglia Pontello si sfilò e così, nella primavera dell’87, irruppe il Milan. Il Milan di Silvio Berlusconi, Adriano Galliani e Arrigo Sacchi. Strano: se davvero il leader era e resta il «giuoco», sarebbe bastato pescare un centravanti nel vivaio. Viceversa, si preferì il cigno di Utrecht. E gli astri brindarono.
I Mau-Mau erano ribelli del Kenia, Mau è un maestro che detesta la dittatura dell’immagine e cerca una squadra che creda in lui. E non che, banalmente, lo paghi.