Dedicato a De Laurentiis e Garcia: quando i giocatori «fanno» gli allenatori
Ci mancava solo il blitz del «commissario» De Laurentiis in località Castel Volturno per un sesto grado al sergente Rudi Garcia e ai suoi sottoposti.

©️ “GARCIA” – FOTO MOSCA
Ci mancava solo il blitz del «commissario» De Laurentiis Aurelio in località Castel Volturno per un sesto grado al sergente Rudi Garcia e ai suoi sottoposti. Il momento è grave e Napoli, un vulcano (scusate per la fantasia di bassissima lega). L’ordine, perentorio, è di rialzarsi dalla melma. La pazienza del grande capo è a tempo, come certi ordigni. Se Antonio Conte avesse detto sì, chissà. Ma ha detto no. E allora avanti con i faccia a faccia, l’esigenza di sopportarsi e supportarsi comunque, al di là dei vaffa che, da Victor Osimhen a Matteo Politano, cominciano a essere un po’ troppi. Sfiduciare per fiduciare. Jamme jamme jà!
La genesi del Sistema con cui, nel cuore degli anni Venti, Herbert Chapman decorò la saga dell’Arsenal ed entrò di prepotenza nell’evoluzione del football, nasce da uno 0-7 nella tana del Newcastle. La Fifa aveva appena deciso di correggere la regola del fuorigioco, «tagliando» un difensore, da tre a due. I gol, precipitati, tornarono a impennarsi. Fu così che Chapman, dopo quel popò di disastro, corse ai ripari. Come? Lo ha raccontato Mario Sconcerti nella «Storia delle idee del calcio». Mentre «col gesso faceva grosse righe bianche alla lavagna», Charlie Buchan, il capitano, attaccante in gioventù e difensore centrale ai gunners, «alzò la mano e chiese di parlare. Buchan era molto rispettato. Disse: “Perché non spostiamo il centromediano in mezzo alla difesa. Le regole [sul fuorigioco] hanno tolto un uomo, noi ne mettiamo un altro. Proviamo a giocare con tre difensori [l’ultimo, preso dalla linea mediana]».
Ecco: è una scheggia di memoria che avvicina il rango dell’allenatore al ruolo dei giocatori, ruolo in senso lato: e, soprattutto, partecipativo. La miccia scatenante è il Consiglio dei saggi promosso da Rudi Garcia. Sette, come i nani di Biancaneve. All’epoca di Socrates e della «Democrazia Corinthiana», il nocciolo della questione era la questione tout court. La gerarchia non più verticale ma orizzontale, con tanto di lotta al governo militare del Brasile. Insomma: il campo non più come unico obiettivo. Di «scudetti», prima che il dottore scegliesse l’Arno per sciacquarsi la carriera, ne arrivarono comunque un paio.
Il violinista vola più basso, per carità, ma il paradosso è uno strumento che aiuta a rigare il dogma del tecnico «assoluto», del tecnico monarca. Mendicare dritte non significa scendere a patti; o meglio ancora, non rappresenta di per sé un indizio di insicurezza, una «falta» di autorità. La finale di Coppa dei Campioni fra Milan e Benfica, disputata il 22 maggio 1963 a Wembley e vinta dal Diavolo per 2-1, porta con sé un gustoso aneddoto. Riguarda un improvviso cambio di marcatura. Troppo lontana, la panchina di Nereo Rocco, dal cuore delle operazioni; e, per questo, da eventuali interventi al ventre degli episodi. Tirava, inoltre, un gran brutta aria: aveva segnato Eusebio, l’uomo di Victor Benitez. Si narra che, in assenza di mosse correttive del Paron, fu Ce-Ce-Cesare Maldini, il capitano, ad assumersi la responsabilità. Ingiunse a Benitez di occuparsi di José Augusto Torres, il centravanti, e sulla Pantera del Mozambico dirottò Giovanni Trapattoni. Un cambio in corsa che, tra l’infortunio di Mario Coluna e la doppietta di José Altafini, ribaltò tutto: trama e tabellino.
«Comparaison n’est pas raison», ammoniva Raymond Queneau. Non c’è verità che si possa apprendere attraverso i paragoni. Però stuzzicano, divertono, dividono. Sarà «padre tempo», per dirla con Lele Adani, a fissare il destino di Garcia e della sua piccola Camelot. Se fu debolezza, lungimiranza o semplicemente titolo di giornale. A Chapman l’aiutino proprio male non fece.