Quarant’anni fa ci lasciava Beppe Viola: l’ironia al (contro)potere
La mattina del 18 ottobre 1982 moriva Beppe Viola. Molti hanno cercato d’imitarlo, con la penna e al microfono. Colto e disincantato, un cuore grande e la fantasia dei numeri dieci.

La mattina del 18 ottobre 1982 moriva Beppe Viola. Si era sentito male la sera prima, nell’ufficio di Carlo Sassi, presso la sede Rai di Milano, mentre stava montando il servizio di Inter-Napoli 2-2. Servizio che avrebbe dovuto decorare la «Domenica sportiva». Ricoverato d’urgenza all’ospedale Fatebenefratelli, gli venne diagnosticata una emorragia cerebrale. Aveva 42 anni. Ne sono passati 40.
Gianni Brera, su «la Repubblica», lo ricordò così: ««Era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli. […] Povero vecchio Pepinoeu! Batteva con impegno la carta in osteria e delirava per un cavallo modicamente impostato sulla corsa; tirava mezzo litro e improvvisava battute che sovente esprimevano il sale della vita. Aveva un humour naturale e beffardo: una innata onestà gli vietava smancerie in qualsiasi campo si trovasse a produrre parole e pensiero. Lavorò duro, forsennatamente, per aver chiesto alla vita quello che ad altri sarebbe bastato per venirne schiantato in poco tempo. Lui le ha rubato quanti giorni ha potuto senza mai cedere al presago timore di perderla troppo presto. La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. Ed io, che soprattutto per questo lo amavo, ora ne provo un rimorso che rende persino goffo il mio dolore».
Di famiglia sicula, Beppe aveva cominciato a scrivere di sport a metà dei Cinquanta. Era un eclettico: musica (amico intimo di Enzo Jannacci), cinema, cabaret. Il Derby e i derby. Paroliere e non parolaio. Tanto marciapiede, cartelle su cartelle per sbarcare il lunario nel «marchettificio» del giornalismo longobardo, battutista formidabile: «Il golf? Per me è un maglione». Celeberrimo l’«Ufficio facce» con il quale esplorava, bollava e (magari) stroncava la boria degli aspiranti fenomeni. E non meno famosi (anzi: di più), «Quelli che», un ventaglio di lampi nascosti sotto i riccioli delle nuvole che ne solcavano il cielo della professione. Per tacere degli aforismi. Su tutti, la scenetta del pugile che «barcollando, va all’angolo. Crolla sullo sgabello. L’occhio sinistro è chiuso causa ematoma grosso come un melone maturo. Con l’occhio destro guarda il suo secondo e gli domanda: “Come vado?” Il secondo lo osserva, poi indica l’avversario e risponde: “Se l’ammazzi, fai pari”».
I cavalli, altra grande passione. E le scommesse. Beppe era un vulcano ambulante che la moglie Franca e le quattro figlie – Anna, Renata, Marina, Serena – scalavano ogni santo giorno. Intervistò Gianni Rivera sul tram numero 15. Deputato a un derby della Madonnina, «tragicamente» finito in uno squallido 0-0, lo «sostituì» in corsa, e di corsa, con un altro più à la page (diremmo oggi). C’era però un problema: l’originale era stato diretto da Paolo Casarin, che proprio bene non ci rimase, vedendosi sfrattato così platealmente dal ventre della trama.
Viola di sorriso, mai di rabbia. Teneva duro per migliorare il suo record mondiale di mancata carriera. Nutriva il linguaggio d’irriverenza, e guai a chi cadeva nel banale, nel formale: ««sfrecciano», multa di lire 5 mila; «ginocchio in disordine», 10 mila; «il centrocampista va a battere», 20 mila. All’assunzione in Rai dovette dichiarare di «non essere comunista». In «Quelli che…» sono riportate le lettere ai direttori Nuccio Fava e Biagio Agnes dove rammenta che all’esame da giornalista Enzo Biagi gli chiese se collocare Fanfani a destra o a sinistra nello schieramento Dc: «Dipende dai giorni» rispose. Standing ovation.
Molti hanno cercato d’imitarlo, con la penna e al microfono. Colto e disincantato, un cuore grande e la fantasia dei numeri dieci. Nel salutarlo, lo penso e lo rivedo in una frase di Joe R. Lansdale: «Ero giovane, avevo dei sogni, e sapevo che avrei dovuto dimenticarli o toglier loro lo smoking e il papillon e vestirli con pantaloncini e sandali». Ciao Pep.