Gianni Di Marzio, come mi piace ricordarlo
Di Marzio fu tra i primi a gridare «Diego, Diego!» come Rodrigo De Triana, dalla coffa della Pinta, era stato il primo a gridare «Terra, terra!».

© “GIANNI DI MARZIO” – FOTO MOSCA
In questo mondo di padri in cui tutti vorremmo restare figli, di Gianni Di Marzio serbo un ricordo nitido. Gli anni Settanta, anni di piombo nelle strade e nelle tipografie, stavano volgendo al termine. Eravamo a Berna, per una partita tra Argentina e Olanda. C’era in ballo il 75° compleanno della Fifa. Finì 0-0, e dal momento che serviva comunque un vincitore, si andò ai rigori e vinsero, ancora, i campioni del Mondo.
Questa è cornice, il quadro era Diego Armando Maradona, grande escluso dal Mondiale del 1978. Doveva ancora compiere 19 anni.
Cesar Luis Menotti lo aveva scartato perché giovane, troppo giovane. Nessuno è perfetto; neppure il flaco di sinistra e – in quel caso -fin troppo conformista. Non avevo mai incontrato Di Marzio. Lo conoscevo di rimbalzo. Fra parentesi, se c’è un ramo del sapere che aborro è proprio il mercato. Fin dai tempi di un altro Mondiale, quello cileno del 1962. Ragazzo a Bologna, mi ero invaghito di Amarildo, uscito dall’armadio dopo l’infortunio di Pelé. Non meno decisivo, Amarildo, di Garrincha. Firmarono entrambi, soprattutto loro, la seconda Coppa. Bene. Amarildo. Giocava nel Botafogo, i giornali lo davano alla Juventus. Ci credetti. Naturalmente, non si mosse. E, sempre naturalmente, la stagione successiva finì al Milan. Alla Juventus, mai. Mi bastò per giurare tremendo e imperituro oblio al mercato e ai suoi cantori.
Però Maradona era Maradona. Anche se, a essere onesti, per noi non lo era ancora. Ne storpiavamo il cognome, sbadigliavamo alle dritte di Omar Sivori, alla ninna nanna di testimonianze vaganti e colorite. I social non esistevano, la televisione non era ancora onnivora. Si studiava, ci si arrangiava, si improvvisava.
Mi colpì, di Gianni, il fatto che sapesse «già» tutto di Diego. Ci eravamo incontrati nella hall dell’albergo, avevamo fraternizzato, fu come inserire una moneta nel juke-box, uscì la musica di una carriera che, di lì a non molto, ci avrebbe invasi, sedotti e abbandonati. E poi, allo stadio, i saluti fra lui e il Pibe, degni di radici solide e profonde. Non si contano coloro che al nome di Maradona aprono e srotolano sterminati tappeti di amarcord siliconati: gonfiati, cioè, dall’impossibilità di essere confutati o smentiti. Tutti Cristofori Colombi famelici e felici di averne circumnavigato e scoperto il genio quando ancora nessuna regina Isabella li aveva invitati a salpare.
Di Marzio fu tra i primi a gridare «Diego, Diego!» come Rodrigo De Triana, dalla coffa della Pinta, era stato il primo a gridare «Terra, terra!». Gianni mi raccontò, quella sera, chi era e non banalmente o semplicemente, cosa sarebbe diventato: ma «perché», soprattutto. Oggi, a tradurre quella «orazion picciola, al cammino», un lettore potrebbe addirittura sorridere, troppo grande l’oggetto del desiderio per non garantire (almeno) la scappatoia popolare e populista del «ci sarebbero arrivati tutti».
Mica vero. Ci arrivò Gianni Di Marzio. Erano ancora i tempi di «Maradona chi?». Da quella scintilla, e da quella lezione, nacque un rapporto discreto, regolato da colloqui e interviste sempre fecondi e sempre più rari. Ogni volta che spuntava dallo schermo, la memoria correva a Diego. Se a un giovane cito «Di Marzio», mi risponderà: «Gianluca». Ne approfitto, allora, per ricordargli che ci fu anche un altro Di Marzio, Gianni, suo papà, napoletano, allenatore di un sacco di squadre fra cui Catanzaro, Napoli e Catania, artigiano del pallone, esploratore di talenti.
Non siate Cesari e non abbiate paura delle Idi Di Marzio. E fidatevi: su Maradona, non millantò. Anticipò.