Da Zoff a Martinez tra folla e follia, tra idee geniali e «genitali»

Per parlarne ne parliamo, ma sempre con distacco, spesso per ultimi. Eppure dovremmo cominciare da loro. A maggior ragione se continuano fuori campo, come Emiliano Martínez.

Articolo di Roberto Beccantini26/12/2022

© “ARGENTINA-VITTORIA” – FOTO MOSCA

Per parlarne ne parliamo, ma sempre con distacco, spesso per ultimi. Eppure dovremmo cominciare da loro. E se non proprio per il numero, visto l’andazzo che hanno preso le maglie, per il ruolo. I portieri. A maggior ragione se continuano fuori campo, come Damián Emiliano Martínez Romero, classe 1992, argentino di Mar del Plata, la città dove – nel 1978 e in un altro Mondiale – un gol recuperato dal flipper di Italia-Francia fece nascere la leggenda di Paolo Rossi, ribattezzato Pablito da Giorgio Lago. Ha chiosato Davide Coppo sulla rivista «Undici»: «Quando Emiliano Martinez, dopo aver ricevuto il premio come miglior portiere del Mondiale, in diretta su tutto il pianeta, davanti ai due figli e alla moglie, ha avuto l’idea geniale di portarselo tra le gambe a simulare un pene, ho pensato: quest’uomo è un pazzo. Oppure un genio. Oppure tutte e due le cose, che spesso, alla fine, coincidono».

Su «geniale» conservo qualche dubbio: magari, «genitale». La memoria corre al secolo di Dino Zoff, che di sicuro è un’altra storia, ma sempre storia. «Dura solo un attimo, la gloria»: scrisse di sé, piazzandolo nel titolo del sua biografia. E la boria, viceversa, quanto dura? Bisognerebbe chiederlo a Cristiano Ronaldo, ma si andrebbe fuori tema. Il Sud America raccontato da Osvaldo Soriano, argentino, e Eduardo Galeano, uruguagio, è uno scrigno di magie e malie, un forziere che abbiamo saccheggiato, devoti alla successione dinastica dei numeri dieci: Omar Sivori, Diego Maradona, Leo Messi. Secondo gli inglesi, il portiere è un «outsider» che regole cangianti e ingombranti hanno espulso dalla gabbia dorata in cui pascolava. I piedi non sono più necessari: sono obbligatori. E la costruzione dal basso, famelica o famigerata in base agli esiti, lo ha avvicinato alla banalità utile dei terzini, dei mediani.

Lo chiamano «el Dibu», Emiliano Martinez. E’ l’abbreviazione di «dibujo», disegno. Nato ai tempi dell’Independiente, il soprannome si riferisce alla presunta somiglianza con un personaggio del cartone animato argentino «Mi familia es un dibujo», «La mia famiglia è un disegno». I nickname sono cruciali, nel romanzo del football criollo. Lele Adani ne è diventato spacciatore seriale e bravo, molto bravo, tranne quando la passione lo prende per l’ugola e lo impicca all’albero del fanatismo. Zoff e Martinez sono gli estremi di un mestiere che l’indole – non importa se mascherata o ostentata – ha gonfiato di enfasi, di superlativi. Dino si ispirava a Gordon Banks, mentre Ricky Albertosi è stato, di sicuro, più vicino all’argentino che non al friulano. Poi, per fortuna, c’è il lavoro, ci sono le parate.

Queste sì, scavalcano il tifo, i settarismi, le volgarità. Solo momenti: e mementi. Zoff e il colpo di testa di Oscar agli sgoccioli di Italia-Brasile 3-2 il 5 luglio 1982. Martinez e il tiro di Randal Kolo Muani in coda ad Argentina-Francia il 18 dicembre 2022. Sono passati quarant’anni (abbondanti). Dino intercettò la palla in tuffo e la difese, paterno, dalle insidie ottiche del gesso della linea. Emiliano la murò di piede, dopo essere uscito alla kamikaze – non proprio alla Giorgio Ghezzi, ma quasi – e aver allargato le braccia come un Cristo in croce.

Gioca nell’Aston Villa, era già stato prezioso in Copa America. Rammenta, nella postura e nello stile, Hugo Orlando Gatti, scheggia «milionaria» al River e poi reliquia del Boca. Un acrobata, un «loco»: un matto, appunto. Perché il calcio – come lo sport, in generale – bivacca maligno alla periferia del giudizio: personale e giammai universale. L’assoluto è pericoloso, non meno del conformismo degli anti-conformisti. E allora: fra le gesta e i gesti, consiglio le gesta. Pene al pene e Dino al Dino.

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