La Nazionale e il problema dei vivai. Da Pecci a Viscidi: “liberiamo” i nostri ragazzi

A ogni sconfitta della Nazionale affiora, implacabile, l’argomento dei vivai. Il tatticismo li contamina fino a sequestrarne la grezza genuinità.

Retegui, NapoliFoto Mosca
Articolo di Roberto Beccantini27/03/2023

© ” RETEGUI” – FOTO MOSCA

A ogni sconfitta della Nazionale affiora, implacabile, l’argomento dei vivai. Come e perché li trascuriamo. Eppure la coltura sportiva dei giovani dovrebbe rappresentare il pennone dell’intero movimento: se non, addirittura, la bandiera. Il tatticismo, viceversa, li contamina fino a sequestrarne la grezza genuinità. I primi passi diventano, così, forzati, forzosi.

Le tavole rotonde spopolano, i seminari infuriano. Vi giro, sul tema, un articolo de La Stampa. Risale al 24 marzo. Occhiello: “Le Under 10 e 12 si sono autogestite in un torneo a Messina”. Titolo: “In campo senza tecnico, così la Juventus fa crescere i calciatori di domani”. I precettori in tribuna, con famiglie e famigli, i pupi abbandonati al loro destino e liberi, finalmente. Liberi di giocarsela e di gestirsi all’interno del branco senza le canoniche manette dei mister sbraitanti dalla panchina. Forti, naturalmente, della didattica settimanale: forti, ma non più schiavi.

Una provocazione. Lontana, lontanissima dalla palude delle plusvalenze. Fra parentesi, la Under 10 di Madama ha pure vinto, dettaglio che non guasta. Ne ho parlato con Eraldo Pecci, che ai suoi bei dì fu regista felpato e raffinato: “Tutto ciò che va contro i luoghi comuni mi trova d’accordo. L’esperimento della Juve mi pare che rientri in questo filone. E allora, evviva. Ai ragazzi bisogna dire, semplicemente: giocate. È ai più grandi che va suggerito: giocate in un “certo” modo. Ma con judicio, sempre. La tendenza coinvolge gli allenatori: i contratti sono gracili, mediamente di un anno, e dunque pure loro, soprattutto loro, si aggrappano ai risultati, naufraghi in balia di un eccesso di algoritmi e classifiche, finendo spesso per venirne travolti».

Si ricorda, di Pecci, uno splendido paradosso: “All’allenatore che vince il campionato assegnerei, come premio-scudetto, la guida del settore giovanile”. Sembra un ossimoro, e lo è: intriso, però, di amore per i valori del calcio, e non solo per i prezzi che lo zavorrano; e che noi, pigri, scambiamo talvolta per doti. “Non c’è più uno che salta l’uomo”, insiste l’Erald Tribune, alludendo ad allevamenti che producono polli da batteria, distanti anni luce dal dribbling di Khvicha Kvaratskhelia, che pure è nato in Georgia e non a Copacabana. Quante volte è scattato l’allarme del tiki taka guardiolesco. Un mezzo, non un fine: e, quindi, da non trasformare in feticcio.

Come il sottoscritto, ed è un onore, la pensa Maurizio Viscidi, coordinatore delle nazionali giovanili: “Durante il lavoro in settimana si dà troppo peso al possesso palla che favorisce la crescita dei centrocampisti a discapito delle punte: attaccare il campo verso la porta avversaria è una rarità. I tecnici urlano di giocare facile, di non osare, di guardare il compagno vicino.[…] Chi gioca in mezzo sfrutta metodi di allenamento congeniali, chi sta davanti o di ruolo fa l’esterno resta frenato da un settore giovanile dove il talento si può sprecare” (intervista di Guglielmo Buccheri, da «La Stampa» del 22 marzo).

L’analisi, al netto degli infortuni e dei cali di forma, spiega i ‘por qué’ dei Mateo Retegui di turno. Problema nel problema, la  scomparsa degli oratori, palestre gratuite a suffragio universale, e lo sviluppo delle scuole calcio, a pagamento, con le mamme e i papà custodi morbosi del minutaggio dei pargoli. Indro Montanelli ammoniva: “Voi sapete che la nostra scuola è stata dominata dall’idealismo, e l’idealismo ha allevato in Italia quattro generazioni di dilettanti, perché con questa storia che non importava sapere le cose, ma avere delle idee sulle cose, noi abbiamo allevato quattro generazioni di italiani che avevano l’idea del tornio ma non sapevano usare il tornio”. Et voilà.

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