I rigori, questi «impostori»: dal Nino di De Gregori al Mancini di Budapest
I rigori, gli «impostori» del calcio, che spappolano anime e traslocano sogni. Mix di thrilling ed emozioni.

©️ “RIGORI” – FOTO MOSCA
Hai voglia di bollarli come impenitenti «riffaioli», anche se farebbe comodo, e un po’ lo sono, sul serio. Ma solo un po’. Stiamo parlando dei rigori, questi «impostori», che spappolano anime e traslocano sogni. Meglio chiedere asilo al tennis e adottare «tie-break». A parità di thrilling ed emozioni, rende in maniera più pertinente l’idea dell’esercizio balistico, dello spareggio bum-bum.
L’ultima tortura ci arriva dall’arena che Budapest ha dedicato a Ferenc Puskas. Uno che, nel dubbio, non calibrava: sparava. Come nel 1984, in occasione dell’epilogo della Coppa dei Campioni, i penalty sono stati fatali alla Roma. Il 31 maggio scorso c’era in ballo l’Europa League e l’avversario era il Siviglia, già eversore di Manchester United e Juventus.
I rigori. Francesco De Gregori li ha cantati ne «La leva calcistica della classe ‘68». Così: «Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore. Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia».
La musica è arte e un maestro è un maestro, per sempre. Non bisogna aver paura di sbagliarli. Ma bisogna avere il coraggio di batterli. E attenzione, ne esistono di due tipi: quelli che l’arbitro fischia dentro la partita e, in base al risultato contingente, un suddito «ruba» al designato, cavalcando momenti che cancellano età, cariche, onorari. Si torna i bambini infiniti dell’oratorio, dove il più alto in grado era il proprietario del pallone. Successe, un ingorgo del genere, in Inter-Bologna 1-2 del 5 luglio 2020, l’anno della pandemia. Lau-toro Martinez depredò il «titolare», Romelu Lukaku, e andò lui sul dischetto. Sarebbe stato il gol del 2-0. Lukasz Skorupski glielo parò. L’Inter perse. Apriti Antonio (Conte). Mai più.
Ci sono poi gli altri, i penalty che sparigliano i «supplementari». Pesano tonnellate e mai accendono risse da cortile, attacchi al carisma del capo-poligono. La fatica e lo stress conducono le pecore superstiti ed esauste a nascondersi dietro il tabarro del pastore, nella speranza di essere dimenticate. L’allenatore si guarda attorno, accigliato, e fissa negli occhi i suoi naufraghi per carpire le verità che gli sguardi confondono e i respiri mascherano. «Te la senti, tu?». E allora lo scenario cambia di brutto.
La generosità celebrata da De Gregori, nel senso di opposizione all’egoismo delle gambe stremate e del cuore tremulo, diventa l’audacia che Nino non può scartare. Sono questi, i «particolari» che fanno il calciatore. E se la fantasia rientra nel novero della mira, della guerra psicologica con il portiere, la solitudine del cecchino aiuta a crescere.
Al culmine di Roma-Liverpool, condotta davanti ai plotoni di esecuzione da un destino fetente, la diserzione di Paulo Roberto Falcao agitò biliosi dibattiti tra gli oltranzisti (avrebbe dovuto tirarlo comunque) e i concilianti (se non se la sentiva, inutile forzarlo). Mercoledì scorso, non risultano fughe. Specialisti quali Paulo Dybala, Lorenzo Pellegrini e Nemanja Matic erano usciti per infortunio. José Mourinho ha raccolto i cocci, Bryan Cristante subito (gol), Gianluca Mancini (murato di piede), Roger Ibanez (palo). Sarebbe quindi toccato a Nicola Zalewski e Andrea Belotti, se non fosse andata com’è andata.
Franco Esposito, scrittore eclettico e profondo, ne ha ricavato un libro: «E continuano a chiamarli lotteria». In assoluto, hanno sbagliato almeno una volta persino Diego Armando Maradona, Michel Platini, Zico, Marco Van Basten. Roberto Baggio a Pasadena. Andrij Ševchenko a Istanbul. Non bisogna aver paura di sbagliarlo. Non bisogna aver paura di tirarlo. Alla fine, soprattutto. Quando dopo non c’è più nulla. O tutto.