La Champions del «Gattopardo»: cambiare tutto perché (quasi) tutto rimanga come prima
Champions, morale della favola: più quattrini ai «poveri», ma in pratica archivio sequestrato spesso dai soliti noti.

Se il mercato è il viagra dei tifosi, la Champions – per le società – è diventata una sorta di Banca centrale europea. L’edizione in rampa di lancio sarà la prima a 36 squadre, quattro in più dell’ultima. Girone unico o quasi. Argine alla famigerata Superlega. Con lo «ius soli» (il diritto dei risultati) a prevalere sullo «ius bacheche» (il diritto dei titoli).
In ballo, a testa, un massimo di 150 milioni e un minino di 50, per un totale di due miliardi e mezzo abbondanti di euro. Nacque nel 1955, e al capitolo inaugurale presero parte in 16. La chiamarono Coppa dei Campioni. Il Novecento aveva generato e sofferto due guerre, l’Europa si specchiava in una mappa sparpagliata e rancorosa, fra vincitori e vinti. Lo sport cominciò ad avvicinarla, nella speranza, romantica, di unirla. C’era già, dal 1930, la Coppa Rimet. E ci sarebbero stati, dal 1960, gli Europei. Le competizioni per club erano ferme alla Coppa dell’Europa Centrale, poi Mitropa, e alla Coppa Latina. Tentativi settoriali, sacche geografiche. Mancava lo spirito ecumenico.
Frastornata e martoriata dalle macerie delle bombe, la gente mendicava eroi, simboli, robuste stampelle. In quel groviglio di sentimenti (e risentimenti) agitato dal nazionalismo delle nazioni, le nazionali si trasformarono nella locomotiva del convoglio. Al resto – ad allenare, cioè, le pance e i campanili – pensavano i tornei domestici. Finché i francesi non s’inventarono la Coppa dei Campioni che, aperta ai non campioni dal business più efferato, si sarebbe mangiata la Coppa Uefa, oggi Europa League, e la Coppa delle Coppe, deposta nel 1999 e recuperata dal 2021, almeno nominalmente, attraverso la Conference League.
La saga, visto il montepremi in palio, ha più selezionato che equilibrato, tradendo la scintilla mobile e nobile dei padri fondatori. Prendiamo l’epilogo del 2023: il Manchester City di Pep Guardiola (e degli sceicchi di Abu Dhabi) regolò l’Inter per 1-0. Ebbene, per trovare una «new-entry» come gli inglesi bisogna risalire addirittura al 2012, ad altri inglesi: il Chelsea di Roberto Di Matteo. E se il Real di Francisco Gento si aggiudicò ben sei delle prime undici puntate (1956-1966), il Real della 4×100 Cristiano Ronaldo-Karim Benzema-Toni Kroos-Luka Modric, dal 2014 al 2024 ne ha portate a casa altre sei (delle ultime undici).
Morale della favola: più quattrini ai «poveri», ma in pratica archivio sequestrato spesso dai soliti noti. Non si colgono in giro visioni capaci di evadere dalla moltiplicazione degli introiti e delle gare: 15, due in più rispetto alla fase a gruppi; e 17 per chi si sobbarcherà i playoff. In passato si arrivò persino a 19. Il Milan 2002-2003: dai preliminari con i cechi dello Slovan Liberec al derby di Old Trafford, con la Juventus, risolto vittoriosamente ai rigori. Madama toccò quota 17; l’Inter, semifinalista e anch’essa costretta agli straordinari estivi con lo Sporting Lisbona, chiuse a 18.
Il Mondiale per nazioni, nel 2026, traslocherà dai 32 «clienti» del periodo neo-classico, diciamo così, ai 48 grazie ai quali Gianni Infantino conta di cementare lo scranno della Fifa. Per tacere del Mondiale riservato ai club che, con cadenza quadriennale, dal 2025 coinvolgerà lo sproposito di 32 candidati, contro i 7 attuali. A chi trionfa, 100 milioni.
E’ l’esplosione della quantità. Gli anziani del villaggio ricordano con sadica nostalgia i Vietnam sudamericani della Coppa Intercontinentale quando, a Buenos Aires, gli zigomi e le mascelle saltavano come tappi di bottiglie, e ci si giocava la faccia: in senso figurato e sfigurato. Eliminazione «diretta»: quasi alla lettera. Sopravvive dagli ottavi. Andata e ritorno. Un po’ come il vecchio partita comunista. Quello del compromesso storico.