Dopo il blitz laziale: Sarri, mi ritorni in mente (quando la storia non premia solo i risultati)

Il Napoli di Spalletti verrà citato più del Napoli di Sarri? Probabilissimo, ma nel mio album quello di Sarri lo troverete sempre. Per bellezza e fragranza.

Articolo di Roberto Beccantini06/03/2023

© “SARRI-SPALLETTI” – FOTO MOSCA

Avendo chiosato, dopo lo 0-1 laziale di venerdì 3 marzo, che Maurizio Sarri aveva scritto un pezzo di storia del Napoli e di Napoli, un lettore me ne chiede conto. Scusi, mi fa, ma cos’ha vinto, Sarri, con quel Napoli? E cita, a supporto della propria tesi, «l’Ajax di Rinus Michels e Johan Cruijff, il Barcellona di Pep Guardiola, la Juventus di Marcello Lippi, Antonio Conte e Massimiliano Allegri, il Milan di Arrigo Sacchi, il Liverpool di Jurgen Klopp, l’Arsenal di Arsène Wenger». Loro sì, un convoglio di trofei.

C’è storia e storia, naturalmente. Di solito, le raccontano i vincitori; quasi mai gli sconfitti. Ciò premesso, nessun dubbio: il bancario di Figline Valdarno, a Napoli, ha lasciato ricordi ruggenti. Su tutto e su tutti, quel 4-3-3 che, quando si dice il destino, nacque proprio sul trampolino di un clamoroso 5-0 alla Lazio (di Stefano Pioli), il 20 settembre 2015. In difesa, Kalidou Koulibaly diventò un totem; a centrocampo, Allan, Jorginho e Marek Hamsik: muscoli e fosforo. Per tacere del tridente: José Maria Callejon, Gonzalo Higuain, Lorenzo Insigne. Stelle filanti come pallottole. Nella stagione 2017-2018, con Dries Mertens falso nueve, non gli bastarono 91 punti per defenestrare Madama. E se il famigerato (e mancato) secondo giallo a Miralem Pjanic in Inter-Juventus 2-3 del 28 aprile 2018 pesò, non meno influì la «rinuncia» di scendere in campo a Firenze, il giorno dopo.
I paragoni proposti onorano lo spirito e la cultura di «C’era Guevara», il comandante che, a Castel Volturno, citava Charles Bukowski e ricordava al popolo che per ordire un colpo di stato sarebbero bastati «diciotto titolarissimi». Senza eccedere in retorica, gli albi d’oro sono molto, non tutto. Le emozioni, a volte, ne evadono per catturare, comunque, la memoria.

Un pezzo di storia, tanto per restare in tema, la scarabocchiarono anche la Ternana del gioco corto che Corrado Viciani portò in serie A e il Perugia di Ilario Castagner che, imbattuto, contese fino alla fine lo scudetto della stella al Milan di Nils Liedholm e dell’ultimo Gianni Rivera (1978-’79). Secondo arrivò pure il Real Vicenza di Gibì Fabbri, capace di esprimere un calcio così spumeggiante da trasformare un’aletta mingherlina in Paolo Rossi, l’hombre del nostro Mundial nel 1982.

Il Pescara scapigliato di Giovanni Galeone e il Foggia scollacciato di Zdenek Zeman si divertivano e divertivano. Cos’ha vinto l’Udinese di Alberto Zaccheroni? Nulla, ma il 3-4-3 che Zac s’inventò a Torino, contro la Juventus, per far fronte a un’espulsione, continua a incuriosire gli studiosi. Lo stesso dicasi per il 4-4-2 che Gigi Delneri – quando ancora lo scrivevamo staccato, Del Neri – sdoganò nel Chievo all’alba del Duemila, innalzando un quartiere di Verona al rango di laboratorio.

Prendete l’Atalanta del Gasp. «Zero titoli» direbbe José Mourinho. Ma quanti brividi. La manovra avvolgente e soffocante; il recupero della marcatura a uomo – in avanti, non solo a presidio delle trincee – la difesa a tre manifesto della rivoluzione e non più della tradizione; i ruoli mescolati alla moda dell’Ajax. La televisione ha questo, di bello: se una squadra ti eccita al di là dei risultati, puoi vederla dal salotto di casa. In passato no: eri «prigioniero» dello stadio.

Poi, ripeto, persino la storia, somma di mille cronache, sbandiera i suoi podi, le sue gerarchie. Il Napoli di Luciano Spalletti verrà citato più del Napoli di Sarri? Probabilissimo, dal momento che lo scudetto sposta i Pirenei della critica e l’ultimo risale al 1990, all’epoca di Diego. Però, nel mio album, il Napoli di Sarri lo troverete sempre, accanto alla versione zonarola di Luis Vinicio. Per bellezza e fragranza. E al netto di un pensiero così forte da sembrare pericolosamente «unico».

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