Tu chiamale, se vuoi, punizioni: scomparse, 38 anni dopo il prodigio di Diego

Da Maradona e Platini, passando per Roberto Carlos, Del Piero, Pirlo e Beckham, arrivando ai "nostri" Messi e CR7: le punizioni erano una forma d'arte. Son finiti i tempi degli specialisti.

Maradona, Platini, numero 10
Articolo di Roberto Beccantini06/11/2023

La punizione con la quale Giacomo Raspadori ha sorpreso Mike Maignan, fissando il movimentato struscio di Napoli-Milan sul 2-2, costituisce una rarità filatelica. Dobbiamo al Covercianese imperante una delle più oscene definizioni in vigore: «palle inattive». Le punizioni vi appartengono a pieno diritto. Dirette o indirette che siano. Hanno solcato la storia del calcio, adeguando le traiettorie alla foggia dei palloni, all’ambaradan dei cavilli e, naturalmente, all’abilità dei tiratori. Non vanno confuse con la «massima punizione» che le scuole di pensiero del Novecento facevano coincidere con il rigore: all’epoca, il dischetto era un ombelico sacro e, perché l’arbitro lo indicasse, il «reato» doveva essere grave. Gravissimo. Il più grave.

Le punizioni. Una volta, le barriere se ne fregavano bellamente della distanza protocollare (9 metri e 15) e rosicchiavano zolle, facevano ammuina. Oggi, con lo spray, il cecchino è più tutelato: anche se i passi dell’arbitro risentono, qua e là, del fattore campo (e dell’effetto maglia). Per paradosso, da quando le posizioni – dell’esecutore, del muro – sono state codificate, non si segna di più: si segna di meno. In casi del genere, si annaspa fra i luoghi comuni della modernità: difensori più attenti e, dunque, meno falli; riti preparatori e propiziatori più logoranti, con relativi cali di tensione nello «sniper» di turno; portieri più alti e più preparati grazie agli studi, ai grafici, ai numeri.

Di sicuro, il settore è in crisi. Mancano gli specialisti. Sin dai vivai si preferisce l’ordito tattico al gesto capace di sottrarre carisma al maestro. Non resta allora che rifugiarsi nella memoria di coloro che hanno trasformato uno sparo in arte. La foglia morta di Mariolino Corso, con il cuoio che s’impenna e d’improvviso si spegne come un’anima in pena fra le ragnatele dell’incrocio, l’aveva inventata Didì. Al cocco di Angelo Moratti non parve vero: la adottò, la fece crescere, la rese un «brand».

Sempre dal Brasile irrompe il sinistro ciclonico di Roberto Carlos. Il 3 giugno 1997, contro la Francia a Lione, da oltre 30 metri esplose un satellite che sembrava destinato alla luna, o comunque ben lontano dal palo di Fabien Barthez. Viceversa, sterzò magicamente e gonfiò la rete. Non un dettaglio che fosse fuori posto: il portiere, lo scudo umano dei difensori. Colpita in prossimità della valvola, «per ricavare più potenza», la navicella viaggiò a 136,7 chilometri orari. La scienza prese in esame i frame, trovandoli di una normalità scolastica. Si arrese: era stata la sequenza a determinarne l’anormalità.

In ordine sparso: il destro felpato di Michel Platini e Roberto Baggio, di Gianfranco Zola e Alessandro Del Piero; il destro a orologeria di Francesco Totti; il mancino temporalesco di Sinisa Mihajlovic; le sassate sinistre di Branco; la «maledetta» di Andrea Pirlo; gli arcobaleni griffati di David Beckham, le gittate romanzesche di Leo Messi (una, formidabile, al Liverpool); gli smash randagi di Cristiano Ronaldo.

Sino al prodigio balistico di Diego Armando Maradona. Era il 3 novembre 1985, stadio San Paolo: Napoli-Juventus 1-0. Da una parte, il Pibe; dall’altra, le Roi. Se il gol agli inglesi rimane il più spettacolare su azione, quel piazzato (per giunta, «di seconda») ne incarna il più strabiliante da fermo. Gioco pericoloso di Gaetano Scirea su Daniel Bertoni. Fischio dell’arbitro, Giancarlo Redini di Pisa. Domicilio defilato, assembramento da spiaggia; sulla scena, Eraldo Pecci e il «diez». «Cavoli tuoi», esalò l’Eraldo allorché il capitano gli ingiunse di toccargliela. Detto fatto. Ne uscì una cosa – sì, una cosa – mai vista prima e mai dopo, a mezz’aria e a mezz’area. S’infilò tra il montante e il tuffante (Stefano Tacconi). Tutti in piedi.

Ecco: tu chiamale, se vuoi, emozioni. E punizioni.

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