Da Diego a Leo, il Mondiale resta meno «democratico» dell’Europeo
Lo straripante epilogo di Doha ha confermato il carattere esclusivo che accompagna il Mondiale dall’atto inaugurale a Montevideo, nel 1930.

©️ “MONDIALI” – FOTO MOSCA
Lo straripante epilogo di Doha ha confermato il carattere esclusivo che accompagna il Mondiale dall’atto inaugurale a Montevideo, nel 1930. Fresca di gogne e vergogne, con Gianni Infantino in prima linea, la ventiduesima edizione è andata all’Argentina di Lionel Messi e Lionel Scaloni. Terza corona, una in più della Francia, la regina ghigliottinata. Non sarà facile dimenticare le vampate della finale, la doppietta della Pulce, lo squillo di Angel Di Maria, la tripletta di Kylian Mbappé, il miracolo di Emiliano Martinez su Randal Kolo Muani nella spazzatura del recupero, il pathos dei rigori prima e dei rigori dopo.
Da Diego a Leo, adesso sì: la staffetta ha tagliato il traguardo. Ad avventurarsi nei paragoni tra giocatori e squadre di epoche diverse si rischia di scivolare sulla buccia del tifo. Il calcio è religione, soprattutto a Napoli. Aggiungere, però, non significa togliere. Immagino che, lassù, il Pibe non sia geloso. Al contrario: ne andrà fiero.
Il Sud America non primeggiava dal 2002, quando il Brasile si aggiudicò il rodeo nippo-coreano. Ha avvicinato l’Europa, portandosi sul 10 a 12. Restano così otto le nazioni che decorano la bacheca: Brasile 5, poi Germania e Italia 4, Argentina 3, Francia e Uruguay 2, Inghilterra e Spagna 1. Dal 1978, anno in cui si affacciò la selecciòn di Mario Kempes, si sono registrati appena due «intrusi»: i bleus di Zinedine Zidane nel 1998 e la Spagna delle «sartine» nel 2010. Per il resto, solo «abbonati».
Perché? Non esiste una spiegazione razionale. Il «corto muso» del torneo, sette partite al massimo, consente di mascherare i limiti strutturali. Penso alla Croazia, un francobollo di nemmeno 4 milioni di abitanti che due vittorie, due sole, hanno accompagnato sul podio, al terzo posto, dopo il secondo del 2018 e il terzo, ancora, del 1998. Obiezione: se prassi è, vale anche per l’Europeo, là dove, viceversa, i pruriti dittatoriali si avvertono meno. Battezzato nel 1960 e approdato già a sedici puntate, l’albo d’oro ha coinvolto la bellezza di ben dieci nazionali: Germania e Spagna 3, Francia e Italia 2, Cecoslovacchia, Danimarca, Grecia, Olanda, Portogallo e Unione Sovietica 1. Tirando le somme: otto su ventidue il Mondo, dieci su sedici l’Europa. Eppure il «rateo» di gare della fase finale non cambia.
Pesa l’effetto Brasile, al netto dei tradimenti inflitti, chiunque giochi e chiunque lo alleni. Senza dimenticare i fuoriclasse che, pur nel contesto di un calcio sempre più orizzontale e «comunista», continuano a sancire la differenza. Da Ronaldo il fenomeno alla Pulce e al suo erede designato, Mbappé.
La kermesse qatariota ha ribadito un altro dettaglio. Quante volte ci siamo riempiti la bocca con la sacralità della liturgia preparatoria e propiziatoria, con la «penitenza» dei mesi di raduno se non, addirittura, di confine o confino? Fondamentali nel creare lo spirito di gruppo, fionda di tutti i sassi.
Nel 1992, in chiave europea, la Danimarca avvicendò proprio all’ultimissimo momento – in corsa, e di corsa – la Jugoslavia (della quale avrebbe fatto parte Sinisa Mihajlovic), bandita vigliaccamente e frettolosamente dalla Fifa per lo scoppio della guerra balcanica. Li prendemmo per le natiche, quegli Amleti in mutande strappati in extremis ai castelli di sabbia dei loro pargoli. Vinsero.
Cos’è il Marocco quarto, forgiato al volo da Walid Regragui, se non la prolunga moderna di quella «favola» così precaria e così improvvisa, figlia della penna di Hans Christian Andersen oltre che dei guanti di Peter Schmeichel e dei piedi di Kim Vilfort, avvolto ma non travolto dal dramma della figlioletta malata?
Nel ricordo, infinito, di Mihajlovic e Mario Sconcerti, compagni di viaggio che ci hanno lasciato senza abbandonarci.