Diego, il “primo” anno è sempre il più duro

Diego Armando Maradona un anno dopo. Dobbiamo abituarci. Ma il primo anno è sempre il più laborioso, perché il più fresco, il più vicino alla ferita.

Maradona statua
Articolo di Roberto Beccantini22/11/2021

Diego Armando Maradona un anno dopo. Dobbiamo abituarci. Ma il primo anno è sempre il più laborioso, perché il più fresco, il più vicino alla ferita. La sua morte, il 25 novembre del 2020, fu orrenda: abbandonato in un francobollo di Buenos Aires, tiranneggiato da un corpo che lo aveva fatto prigioniero, da familiari mai così lontani anche quando fingevano di essere così vicini, da medici e infermieri che si palleggiavano terapie, cure, presenze.


Aveva 60 anni. Il 25 novembre (del 2005) era stato fatale a George Best, il 25 novembre (del 2016) a Fidel Castro, il lider maximo che gli fu generosa crocerossina, pronto a raccogliere gli sos che il Pibe inviava dalla sua “isola” ambulante, quel fisico ormai ingestibile e inamovibile. La sua morte commosse molti e coinvolse tutti. Persino gli inglesi, che non avevano dimenticato la mano de Diòs ma nemmeno trafugato, dalla memoria, il gol che li aveva resi, a un tempo, protagonisti e testimoni di un nuovo Big Bang.


Sportweek, il settimanale della Gazzetta dello Sport, ha intervistato Héctor Henrique detto El Negro, il giocatore che, il 22 giugno del 1986 allo stadio Azteca di Città del Messico, gli fornì, umile e docile, il pallone dal quale avrebbe poi estratto il gol del secolo: o dei secoli, non c’è fretta. Un passaggio d’esterno destro, nella metà campo argentina, piccola miccia di un’esplosione che trasfigurò l’epica del racconto sportivo. Mondiali, quarti di finale: tu chiamalo, se vuoi, assist. Ma solo perché lo “decise” Diego, non certo per lo sfizio dell’analista di turno.
Sono quei tocchi che solo a un Genio dicono “qualcosa“, non a noi: fino al momento, almeno, in cui l’episodio esce dalla cronaca e invade la storia.

Come l’invito con il quale Gianfranco Bedin armò il gollissimo di Sandro Mazzola a Budapest, l’8 dicembre del 1966. Era l’Inter di Helenio Herrera, era il ritorno degli ottavi di Coppa dei Campioni. Prese palla, Mazzolino, e scartò mezzo Vasas. Non tirava mai: più lo si invitava (dalla tribuna, dai salotti, dai bar: tira, tira), più dribblava. Finalmente si degnò. Di sinistro. Alla Sivori.
Come il cross con cui Arnold Muhren stimolò l’arte balistica di Marco Van Basten il 25 giugno 1988 a Monaco di Baviera, nella finale dell’Europeo tra Olanda e Unione Sovietica. Non gliela portò certo la cicogna, quella parabola. Veniva dal lato mancino, disegnata da un centrocampista non proprio di primo pelo. Di sinistro, a piede aperto. Sorvolò l’area intasata, Van Basten ebbe tutto il tempo di pensare cosa “non” fare. E, per fortuna, assecondò l’istinto. Come Maradona. Come Mazzola. I fuoriclasse sono così, un corteo di manifestanti contro le lavagne di stato. Hasta l’acrobazia siempre.


L’eredità che si disputano familiari e famigli non m’interessa. Mi interesserebbe, se mai, quell’altra, l’eredità tecnica, ma siamo di fronte a un “patrimonio” troppo grande e troppo unico per pensare, o solo farneticare, di poterlo distribuire se non, addirittura, riprodurre. È già tanto, per chi scrive, averne scortato una fetta di carriera. Penso a Diego, spesso, per le cento vite che ha vissuto in una, per il suo essere stato idolo e non modello, per i sentimenti e i brividi che ha trasmesso. In campo era il “dominus”; fuori no: troppo fragile, in balia di troppi demoni. L’abbiamo usato fino all’ultimo, e poi buttato.
Adesso sì che non è più solo. Ma è tardi, ormai. Hijos de puta che non siamo altro.

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