Juventus, da un Cristiano all’altro. E Thiago Motta sia: non sarà una gita
Giuntoli scommette su Thiago per aprire la saga di un club che vuole cambiare libro, non banalmente voltare pagina.

E Thiago Motta sia. Alla Juventus avevano deciso da mesi. Da Cristiano (Ronaldo) a Cristiano (Giuntoli); dal 2021, anno in cui il marziano era tornato a Manchester, al 2023, anno in cui il tessitore ha mollato Napoli, in mezzo si agita la storia, non semplicemente una notizia. La tradizione di una società che, alla canna del gas, deve tornare «lei» senza buttare soldi; la saga di un club che vuole cambiare libro, non banalmente voltare pagina.
Le tre stagioni dell’Allegri bis hanno lasciato una Coppa Italia e un sacco di problemi (non macerie: problemi). Per tacere del casino aziendale, tra azzeramento di Andrea Agnelli, plusvalenzopoli, bilanci a luci rossicce, handicap in classifica, doping di Paul Pogba, ludopatia di Nicolò Fagioli. Là dove c’era un duce, Andrea, oggi c’è un burocrate, Gianluca Ferrero. E là dove, in passato, regnava Antonio Giraudo, braccio finanziario della Triade, brancola tale Maurizio Scanavino.
Giuntoli, dunque. E Thiago, il «Drago» che ha riportato il Bologna in Champions a 60 anni dall’ultima volta (1964, quando ancora si chiamava Coppa dei Campioni; e quando ancora, in caso di parità, erano le monetine a votare; e proprio così l’Anderlecht «fregò» lo squadrone di Fulvio Bernardini). L’esonero del Max indecoroso e furioso sarebbe scattato comunque, in barba alla scadenza del 2025.
La staffetta è di sostanza, non solo di faccia o di facciata. Madama ci riprova. Si è scoperta colpevolmente in ritardo sul resto d’Europa: non tanto sul Real o sul Manchester City, ma persino nei confronti della Dea del Gasp, che pure aveva battuto nella «bella» di Roma. Chiede a Motta un gioco meno tirchio, più in linea con l’audience televisiva. Punta allo spettatore di Pechino, convinta che, vincendo e divertendo, non perderà il fanatico di Nichelino.
Patti chiari: non sarà facile. La Juventus degli Agnelli ha sempre coltivato e vellicato il concetto di fabbrica. I risultati, please. Innalzandoli, addirittura, al rango, fin troppo impegnativo, di «unica cosa che conta». I risultati, cioè gli scudetti (e, a tempo perso, un pugno di scalpi estero su estero). Metaforicamente parlando, la Juventus incarna la destra storica, conservatrice. Tendenza che spiega il sistematico fallimento dei moti «sovversivi».
Dal 4-2-4 di Paulo Amaral, brasiliano, respinto dall’Inter del Mago, al «movimiento» di Heriberto Herrera, paraguagio, nonostante uno scudetto e una coppa domestica (la famigerata «Juventus socialdemocratica», seconda la frecciata, bruciante, dell’Avvocato).
E poi Gigi Maifredi, nel 1991, con la sua zona champagne e la iattura di dover riferire a quella sciagura di Luca Cordero di Montezemolo.
Una stagione, una sola, e la mortificazione di un settimo posto con relativo sfratto dall’Europa. Per arrivare a Maurizio Sarri, al quale non bastarono, nell’ordine, l’ultimo dei nove titoli consecutivi, i 31 gol di Cristiano (suo «personal best») e l’Oscar a Paulo Dybala. Ormai fuori di testa, Andrea promosse Andrea Pirlo e, al culmine del «trip» onanistico, richiamò il Feticista labronico.
A spulciare in archivio, soltanto il proto Trap, la gestione di Marcello Lippi, l’impatto di Antonio Conte e il primissimo Max hanno portato la Vecchia oltre le catene della vittoria «purché respiri». Secondo me, ci sarebbe riuscito anche «C’era Guevara» Sarri, ma questa è ormai preistoria. Gli spigoli del carattere, il flagello del Covid e i deliri della proprietà sabotarono un’operazione che avrebbe giustificato ben altro sviluppo.