Le crociate di Lotito-Lotita, tra memoriali lunghi e memoria corta

Lotito è un personaggio che fa discutere nel calcio: l'ultima perla del presidente della Lazio risale a dopo la sconfitta dei biancocelesti contro il Milan.

LotitoLotito
Articolo di Roberto Beccantini04/03/2024

Pur non essendo più minorenne da molte rate, Claudio Lotito «Lotita» continua a esercitare un fascino perverso. Ci vorrebbe il talento di Vladimir Nabokov per aggiornarci sui professori Humbert Humbert che non finivano di sbavare per lei, la Lolita del libro.

A gentile richiesta: questo è un Paese che non ha trattato per Aldo Moro ma per le imposte del suo club, sì. E poi Franco Carraro: ai bei dì di Calciopoli, al telefono incitava chi di dovere a fargli un piacere, perché la Lazio, bè, insomma, ci siamo capiti. Quindi, Silvio Berlusconi, il cui timor panico per un’eventuale retrocessione (della Lazio) produsse una visione dell’ordine pubblico casualmente vicina agli istinti della piazza.

Obietterete: è roba dell’età della pietra. Adesso, invece… Adesso, invece, un corno. Cappello alla cowboy, latino di scorta al posto della scorta, guerra totale ai Carpi e ai Frosinone che osano rompere gli zebedei. Senatore di Forza Italia, cresciuto con il Decreto crescita, sbocciato e bocciato, a 66 anni non teme confronti. È il classico presidente che, nel folgorante riassunto di Gabriele Romagnoli, indica le stelle ma poi fa marameo.

L’ultima di «Lotita» risale alla notte del 1° marzo, a Lazio-Milan 0-1 ancora caldissima, dopo che Marco Di Bello ne aveva combinate più di Carlo in Francia (ma Luca Pellegrini, più di entrambi). Di Bello: lo scrivo subito, per evitare «querele» da Cascais a Cesena, lo sbirro che alla seconda, in Juventus-Bologna, non colse il rigore di Samuel Iling-Junior su Dan Ndoye con la squadra di «Drago» Motta in vantaggio per 1-0, eccetera eccetera.

Di Bello, dunque. E «Lotita». Dalla «Gazzetta dello Sport» del 2 marzo: «Lazio violentata. Ora ci faremo valere. Superati tutti i limiti». Il termine che impugna a mo’ di pistola è «preposti»: gli organismi preposti, le autorità preposte, l’ente preposto. «Non uno che garantisca la terzietà». O la terza età?

Si farà valere. Lui, paladino da sempre di un «calcio moralizzato e didascalico». Lui, padrone dell’Aquila dal 20 luglio 2004. E dal 26 luglio 2011 al 7 luglio 2021, persino della Salernitana. Obiettivo, Gabriele Gravina: uomo di una volta, non più da svolta.

Naturalmente, non una parola sulla finale della Coppa Italia 2018-2019, vinta per 2-0 sull’Atalanta all’Olimpico, con gli antagonisti che, non meno della «Lotita» odierna, erano così furibondi da invocare il rogo per Luca Banti, lo sceriffo livornese trattato alla stregua di un Di Bello qualsiasi.

Lotito-«Lotita» rimane di un’altra categoria. Non necessariamente migliore o (più) corretta. Di un’altra. Se non seduce, adesca: «Uno che fa l’arbitro dovrebbe sapere quando arrivare al punto di equilibrio o di rottura. Ora non ci sono le condizioni per trovare un punto d’incontro». Le celeberrime «convergenze parallele» sembrano bambole di un’infanzia lontana, bombole di una pubertà bruciata. La ciliegina sulla torta sarebbe stata, venerdì scorso, la Juventus al posto del Milan, la Vecchia Signora nei panni di Belzebù, di facile spaccio demagogico, ma non si può avere tutto, o tutti, a questo mondo: e Claudius lo sa.

In passato, ai tempi de «La Stampa», mi concesse un’intervista a tu per tu. Mi accolse nella sua aula magna. Giuro: le risposte che mi diede non riguardavano le mie domande, ma i lapilli eruttati dalle centomila telefonate che in un’oretta scarsa ricevette e gestì. È un italiano, un italiano vero, sanguigno, metà diavolo metà badessa, sospeso sul cornicione di un grammelot pittoresco e stregonesco: «Nel calcio mi ispiro al grande Manzoni. L’utile per scopo, il vero per soggetto, l’interessante per mezzo». E se la Lega è un coacervo di (Lorenzo) Casini, pazienza. «Sono come Lotito che ha cacciato i mercanti dal tempio», dicono che abbia detto (o dettato?) Gesù.

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