Come il sogno di Donato Vestuti divenne il seme immortale della Salernitana
Dal fango del Carso all'eternità granata: il sangue di un giovane Capitano come fondamento della Salernitana.

C’è un paradosso sublime nella storia di Donato Vestuti: l’uomo che più di ogni altro incarnò il sogno del calcio salernitano non vide mai la Salernitana. Morì dieci giorni prima dell’armistizio, sul Carso, con addosso la divisa grigio-verde dell’esercito italiano invece della maglia della squadra che aveva sognato. Aveva trentun anni, una medaglia d’argento al valor militare che gli sarebbe stata appuntata sul petto da morto, e un’idea che gli sarebbe sopravvissuta per oltre un secolo.
La Salernitana nacque l’anno dopo, il 19 giugno 1919. Vestuti non la vide mai giocare. Eppure il suo nome è stato per decenni il primo che ogni tifoso granata pronunciava prima di entrare allo stadio. Dal 1952 al 1990, l’impianto di Piazza d’Armi portò il suo nome. Mille e ventidue partite ufficiali giocate sotto quella insegna. Generazioni intere che hanno imparato ad associare il calcio salernitano a quel volto austero delle foto d’epoca: baffetti sottili, copricapo tipo colbacco, mantella sulle spalle. Un po’ paffutello, per dirla tutta. Niente a che vedere con un atleta.
Ma Vestuti non era un calciatore. Era un visionario. Nel 1913 – mentre l’Europa ancora ballava inconsapevole sull’orlo dell’abisso – fondò il Salerno Foot-Ball Club. Non c’erano campi degni di questo nome, le divise erano introvabili, la Federazione era un labirinto burocratico impenetrabile. Lui andò avanti lo stesso, con l’ostinazione di chi crede che certe cose vadano fatte anche se impossibili.
Sul “Giornale della Provincia”, che aveva fondato e dirigeva, Vestuti scriveva con la passione di chi crede nel potere trasformativo dello sport. Non era un cronista qualunque: era un visionario. Nelle sue parole c’era la convinzione che il calcio potesse essere molto più di un gioco, che potesse essere educazione, comunità, identità. Poi venne la guerra, la chiamata alle armi, il fronte carsico con le sue rocce bianche e la sua morte indiscriminata.
C’è qualcosa di terribilmente poetico nel destino di Vestuti. La sua morte arriva nel momento peggiore possibile: così vicina alla fine della guerra da sembrare uno scherzo crudele del caso, così vicina alla nascita della Salernitana da trasformarsi in leggenda. È come se la storia avesse deliberatamente scelto di farne un martire fondativo, il padre che muore perché il figlio possa nascere.

Donato Vestuti
I miti funzionano così. Si nutrono di assenze più che di presenze. Vestuti non ha mai dovuto gestire una sconfitta, un bilancio in rosso, una retrocessione. Non ha mai tradito le aspettative di nessuno perché non ha mai avuto il tempo di giocare la partita. È rimasto cristallizzato nel momento dell’ideale puro, della promessa non ancora verificata dalla realtà.
Per questo il suo nome pesa di più di quello di tanti campioni che hanno indossato la maglia granata. Non è questione di gol segnati o trofei vinti. È questione di essere all’origine, di rappresentare il momento in cui tutto era ancora possibile e niente era stato ancora corrotto dalla prassi.
Lo Stadio della Salernitana come Tempio della Memoria
Quando nel 1952 il Comune decise di intitolargli lo stadio, compì un atto che era insieme commemorativo e politico. Salerno usciva dalle macerie della guerra e cercava un’identità calcistica stabile. Dedicare l’impianto a Vestuti significava rivendicare una tradizione, dire: noi non siamo un’improvvisazione, abbiamo radici che affondano nel primo Novecento.
C’era stata anche l’ipotesi di dedicarlo a Renato Casalbore, il giornalista salernitano morto nella tragedia di Superga. Ma Casalbore avrebbe legato l’identità granata a un lutto recente e straziante. Vestuti offriva una narrazione più costruttiva: il sacrificio per la patria seguito dalla rinascita sportiva. La scelta fu salomonica: stadio a Vestuti, piazza antistante a Casalbore. Ma fu chiaro da subito quale dei due sarebbe diventato il simbolo primario.
Oggi il vecchio Vestuti versa in stato di semiabbandono. Dal 1990 la Salernitana gioca all’Arechi, e l’impianto di Piazza d’Armi ospita solo qualche partita di rugby o gara di atletica. Le tribune che hanno visto mille domeniche granate sono silenziose e invase da erbacce. C’è una malinconia involontaria in questo declino, come se anche lo stadio avesse seguito il destino del suo eponimo: incompiuto, sospeso tra ciò che fu e ciò che avrebbe potuto essere.
Eppure Vestuti continua a vivere. Non solo nel nome di quello stadio ormai vuoto o nella targa del Convitto Nazionale dove è inciso tra i caduti del Liceo Tasso. Vive ogni volta che un tifoso invoca un “ritorno alle origini”, ogni volta che si parla di “vera identità granata”, ogni volta che qualcuno contrappone il calcio autentico a quello dei fondi d’investimento e dei bilanci faraonici.
È diventato lo specchio dove ogni generazione proietta la propria nostalgia di purezza. Non importa che il suo calcio del 1913 avesse poco in comune con quello moderno. Importa che rappresenti un tempo mitico in cui si giocava “per amore”, quando tutto era più semplice e più vero.
Questa è la forza dei miti fondativi: non stanno fermi nella storia, si muovono con noi. Vestuti non è più solo il giovane borghese di Eboli che nel 1913 ebbe un’idea folle. È diventato “il nostro Vestuti”, proprietà collettiva della comunità granata, simbolo che ogni epoca modella secondo le proprie esigenze.
C’è un dettaglio che vale la pena ricordare. Vestuti non morì in una carica eroica o in uno scontro corpo a corpo. Fu colpito da una granata, morte anonima e statistica come quella di migliaia di altri ragazzi italiani sul Carso. Niente di epico, in verità. Solo l’assurdità meccanizzata della guerra moderna che macinava vite umane senza distinguere tra eroi e comparse.
Quando i vecchi tifosi passano davanti a quelle mura, portano con sé stratificazioni di memoria che nessun nuovo stadio potrà mai replicare. Ricordano i pomeriggi domenicali degli anni ’60, ’70, ’80, quando il Vestuti era il cuore pulsante della città. Ricordano vittorie e disfatte, invasioni di campo e lacrime di gioia.
Forse il vero omaggio a Vestuti non sono le commemorazioni ufficiali o le celebrazioni retoriche. È la testardaggine con cui i salernitani continuano a tifare la loro squadra anche quando la ragione suggerirebbe di lasciar perdere. È quella fedeltà un po’ masochista, un po’ eroica, che caratterizza i tifosi delle province calcistiche italiane.
Vestuti piantò un albero sapendo di non vederne mai i frutti. Ma lo piantò lo stesso, con la certezza cieca che qualcun altro li avrebbe raccolti. In fondo, è questo il senso ultimo del suo mito: l’idea che si possa seminare qualcosa per puro atto di fede, senza garanzie di risultato, senza la certezza di essere ricordati.
Che poi sia stato ricordato, che il suo nome sia diventato leggenda, è quasi un paradosso. I veri pionieri di solito finiscono dimenticati, schiacciati dal peso di chi viene dopo. Vestuti invece è rimasto, sospeso in quella terra di nessuno tra storia e memoria dove abitano i padri fondatori.
Il vento che soffia sull’Arechi nei pomeriggi di pioggia non porta con sé il fischio d’inizio di quella prima partita del 1913 a Piazza d’Armi. Sarebbe retorica a buon mercato pensarlo. Ma porta qualcosa di più sottile e persistente: l’eco di un’idea che ha attraversato una guerra mondiale, due recenti retrocessioni e un secolo di calcio italiano senza perdere la sua forza originaria.
Donato Vestuti non ha mai visto giocare la Salernitana. Eppure ogni partita granata, in qualche modo misterioso e inspiegabile, continua a essere giocata anche per lui.