Il samurai che si innamorò della sirena

Continua il viaggio de “L’anima di Partenope”, la rubrica di Giancamillo Trani che racconta le storie straordinarie di uomini e luoghi legati a Napoli. Questa settimana, l’incredibile vicenda di Harukichi Shimoi: il samurai poeta che portò le arti marziali a Napoli e s’innamorò perdutamente della sua Sirena.

credit photo by wikipedia profilecredit photo by wikipedia profile
Articolo di Giancamillo Trani30/11/2025

Ci sono storie talmente intense e toccanti che sembrano inventate alla stregua di leggende ma che, in realtà, altro non sono se non testimonianze di sentimenti imperituri che, sin dalla notte dei tempi, albergano nell’animo di ogni  essere umano ed ispirano il suo modo di rapportarsi con gli altri. D’altro canto, cos’è la fabula se non la possibilità di dire il nuovo con parole vecchie per chi abita in un universo senza confini…

L’introduzione delle arti marziali a Napoli ha un padre nobile. La nostra storia ha inizio nel Paese del Sol Levante, il lontano Giappone dove, nel 1883, nella Prefettura di Fukuoka, nasce Harukichi Inoue. Il bambino è il quarto figlio di Kikuzō, uno shizoku, ovvero un samurai, un guerriero, di quelli che noi occidentali abbiamo imparato a conoscere dai libri di James Clavell e di George Soulié de Morant, come pure dai film del maestro Akira Kurosawa.

Appassionato di lettere e poesia, Harukichi dopo il matrimonio cambiò il suo cognome in Shimoi (assumendo quello della moglie). Studiò la nostra lingua al dipartimento italiano dell’Università degli Studi Esteri di Tokyo e s’innamorò di Dante Alighieri e della sua opera.

Il suo sogno di venire in Italia per approfondire la lingua, si realizzò nel 1911, quando Harukichi Shimoi giunse a Napoli: pur sapendo che la città partenopea non aveva forti legami con Dante, rimase completamente affascinato dal clima e dall’ambiente napoletani. La Sirena Parthenope, formidabile ammaliatrice,  aveva sedotto e conquistato il giovane nipponico che così scriveva: «…la penisola Sorrentina, serena e coronata degli oliveti e degli aranceti, è così incantevole che ci sembra una visione; è di bellezza femminile; mentre l’isola di Capri e la costiera amalfitana sorgono maestose dal mare azzurro come le mura gigantesche che cingono il golfo di Napoli; è di bellezza maschile…».

Grazie all’intercessione dell’amico intellettuale Gherardo Marone, frequentò la crema dei salotti culturali napoletani, allacciando anche un solidale rapporto con Benedetto Croce. Fu anche grazie a questi vivaci scambi culturali che Shimoi imparò a padroneggiare, alla perfezione, il dialetto napoletano.

In proposito si ricorda un gustoso aneddoto: Harukichi, dovendosi recare a casa del poeta Giovanni Ermete Gaeta (ai più noto come E. A. Mario, Napoli, 1884 – 1961)  pensò di prendere una carrozzella. Il vetturino, notando le fattezze esotiche del passeggero, una volta a destinazione, pensò di spillargli una somma elevata: accortosi della truffa,  il giapponese  lo afferrò per il bavero esprimendo epiteti in perfetto vernacolo, al punto che il vetturino commentò «Chisto è cchiù napulitano ‘e me!».

Nel 1915, Harukichi Shimoi intraprese l’insegnamento della lingua giapponese all’Università “L’Orientale” di Napoli, sostituendo  il Prof. Hidezo Simotomai. Nel 1917, abbandonò temporaneamente la cattedra per arruolarsi nel Regio Esercito come corrispondente postale. Durante la Grande Guerra conobbe il Generale Armando Diaz e, tramite questi, Gabriele D’Annunzio.

Tuttavia Harukichi Shimoi, benchè conoscitore e praticante delle arti marziali (che introdurrà anche a Napoli, in particolare nella sua cerchia di amici), non aderì al Corpo degli “Arditi” come istruttore (come erroneamente riportato da più fonti n.d.r.), ma si limitò ad invitare, in Italia, il Maestro Kanō Jigorō (l’inventore del judo, derivato dal jujitsu) che, nel 1934, venne  a visitare i Kodokan Club creati dal judoka Carlo Oletti.

E’ vero, invece, che D’Annunzio coinvolse  Harukichi nell’impresa di Fiume e che, negli Anni Venti, il giapponese non nascose le sue simpatie per il Fascismo di Mussolini, in cui vedeva l’espressione dei valori del futurismo e del bushido (il codice di condotta e di vita dei samurai) .

Per questo partecipò alla marcia su Roma e, successivamente, supportò la via diplomatica sorta con l’Asse Roma – Berlino  – Tokyo. Proprio per portare avanti questa linea, Harukichi fece ritorno in patria nel 1934, abbandonando così la sua amata Napoli dopo una permanenza durata più di vent’anni.

Poco prima della sua partenza, Harukichi fece un’ultima cosa: visitò gli scavi di Pompei, ai quali dedicherà la poesia intitolata “Shinto Pompeo o toutame ni”. Harukichi Shimoi morì  a Fukuoka nel 1954, serbando – nel cuore – l’eterno ricordo della sua Sirena: ognuno ha la “sua” Napoli, s’innamora d’un qualcosa e vi ci lascia un pezzo di cuore.