Le ali della libertà – Diario del calcio eritreo
Scorrendo la graduatoria delle 210 nazionali affiliate stilata periodicamente dalla FIFA non cercate l'Eritrea. Non la troverete. E non è frutto del caso.
Credit: Tope. A AsokereLa scelta del titolo non è casuale: come Andy Dufresne ha scavato per anni un tunnel verso la libertà armato solo di un martello da geologo e di speranza, così gli sportivi eritrei si aggrappano a ogni occasione possibile per liberarsi da un paese che li imprigiona. Entrambe le storie parlano di resilienza e di un desiderio indomabile di vita. Peccato, però, che la pellicola tratta da un racconto di Stephen King si concluda in due ore e ventidue minuti con il più lieto dei finali, mentre l’isolamento e la repressione del popolo di Asmara e dintorni, ad oggi, non conoscano termine.
Dal 1991 ai giorni nostri, la storia dell’Eritrea viaggia sullo stesso, infinito binario delle velleità di Isaias Afewerki, un uomo che probabilmente non avrete mai visto in faccia, e che ha impiegato buona parte del suo potere per fare della sua terra una delle più chiuse e autoritarie del pianeta. Leader carismatico durante la guerra d’indipendenza, è diventato presidente del nuovo Stato nel 1993 e da allora ha progressivamente concentrato tutto il potere su di sé, abolendo elezioni, partiti di opposizione, stampa autonoma e ogni forma di dissenso. I suoi incontri con dignitari stranieri si limitano spesso alle delegazioni di Russia e Cina, e il suo regime si regge su un capillare sistema di controllo, con servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato, arresti arbitrari e un clima di paura diffusa.
Come ogni uomo di potere che si sia seduto sulle poltrone di Asmara, però, Afewerki non ha potuto evitare il confronto –spesso armato– con la vicina Etiopia. Dopo trent’anni di battaglie per l’autonomia, le due nazioni sono piombate in un braccio di ferro al confine fra il 1998 e il 2000: il risultato? Decine di migliaia di morti per il controllo di pochi chilometri quadrati nella zona di Badme. Il clima poi è rimasto teso, con confini chiusi, spese militari fuori controllo e una retorica nazionalista martellante. Almeno fino al 2018, segnato dall’arrivo al potere del riformista Abiy Ahmed in Etiopia, quando i due paesi hanno firmato un accordo storico che ha garantito ad Abiy il Nobel per la Pace. Ma quell’illusione è durata poco. La normalizzazione delle relazioni non ha portato a cambiamenti interni; anzi, il regime ha mantenuto il pugno di ferro e ha persino coinvolto le sue truppe nel sanguinoso conflitto civile del Tigray, teatro di numerosi crimini di guerra.
E pensare che l’Etiopia vincitrice della Coppa d’Africa nel 1962 era composta per metà da giocatori eritrei, su tutti Luciano Vassallo, una vita da meccanico in Italia dopo l’esilio.
Attualmente l’Eritrea non gioca una gara del circuito FIFA dal 2019 e, di conseguenza, non è più classificata nel ranking mondiale – non in precedenza brillasse, come dimostra il picco negativo del 206° posto occupato poco prima di scomparire. In primavera la “Corea del Nord” del continente è tornata a ospitare alcuni match di carattere internazionale, vale a dire un paio di amichevoli contro la selezione del Niger in cui i padroni di casa hanno raccolto un pareggio a reti bianche e una sconfitta di misura. Un segnale troppo timido in relazione alle esclusioni dei 𝘙𝘢𝘨𝘢𝘻𝘻𝘪 𝘥𝘦𝘭 𝘔𝘢𝘳 𝘙𝘰𝘴𝘴𝘰 dalle qualificazioni ai Mondiali e all’AFCON e l’assenza di società locali nelle competizioni CAF.
Il motivo principale di questo blocco è il timore da parte delle autorità che i giocatori utilizzino le trasferte per andare a caccia di un’esistenza migliore all’estero. Una paura fondata, sia chiaro, dal punto di vista del regime: in quindici anni quasi un centinaio di sportivi ha chiesto asilo politico altrove. Non solo calciatori: nel 2015 sette ciclisti deviarono il loro percorso di allenamento e scapparono. Il ciclismo, comunque, è l’unica disciplina in via di sviluppo: Biniam Girmay ha vinto tre tappe e la prestigiosa maglia verde al Tour de France 2024 –un risultato storico per l’Africa nera– e diversi corridori locali si intravedono all’interno del gruppo ormai da diverso tempo.
In occasione di un viaggio in Botswana per giocare le eliminatorie verso la Coppa del Mondo in Qatar in dieci si rifiutarono di tornare a casa, ma si potrebbero fare tanti esempi del genere: 18 dei 22 membri della spedizione organizzata in Uganda per un’edizione della CECAFA Cup si allontanarono per “fare shopping” e sparirono nel nulla; nell’arco di sette anni a Nairobi trovarono rifugio quasi 30 figure provenienti dall’estremità Est del Corno d’Africa; le rappresentative giovanili non rientravano mai al completo…
Alcuni di loro sono stati presi in carico dall’UNCHR e scortati chi in Europa, chi fino all’Australia, degli altri si sono semplicemente perse le tracce.
A livello di club, il calcio trovò terreno fertile durante il periodo sotto gli ordini dell’Italia coloniale e fascista, come dimostrano i nomi delle prime società a sorgere: Gruppo Sportivo Cicero, Rionale Neghelli, Melotti, Ferrovieri, Marina, 175ª Compagnia Radio Genio, Dopolavoro Ala Littoria sono solo alcune delle formazioni che si contesero una lega affiliata ai campionati italiani ed equiparata alla serie D. La società più titolata è il Red Sea, che vanta 14 titoli in bacheca e a inizio millennio affrontò addirittura i giganti egiziani dell’Al-Ahly in Champions League: manifestazione a cui, neanche a dirlo, oramai è vietata la partecipazione.
Eppure, qualcosa sembra finalmente muoversi, in quanto la versione femminile del torneo sarà disputata dalle ragazze del Denden. Super sorvegliate, in quel Kenya che evoca brutti ricordi nei palazzi del potere, ma comunque in gioco: speriamo sia molto di più di un’eccezione.
Andy Dufresne impiegò 19 anni per scavare il suo tunnel. Chissà se anche per gli eritrei, un giorno, arriverà quel momento da film in cui potranno togliersi di dosso la polvere, alzare gli occhi al cielo e lasciare che piova libertà.
