Galeone, insegnava l’allegria
Tratto dal Corriere dello Sport di oggi, e pubblicato su Sport del Sud per gentile concessione dell’autore. Il ricordo di Mimmo Carratelli per Giovanni Galeone, il marinaio del pallone: allenatore poeta, uomo libero e affabulatore inimitabile, ultimo cantore del calcio romantico.
Credit photo by wikipediaL’ombrellone sulla spiaggia dov’era lo chalet-ristorante di Eriberto Mastronardi, la faccia bruna intarsiata dalle rughe e i capelli mesciati dal sole, due pacchetti di Marlboro rosse, un prosecco, gli amici, Giovanni Galeone e il suo mondo a Pescara. Era un uomo di mare. Gli piaceva fare il bagno di notte e, di notte, usciva a pesca sul catamarano dell’amico Raffaele D’Annibale, rischiando una volta il naufragio. “Sono un uomo di mare, devo avere spazi davanti, devo sentirmi libero”.
Era nato a Bagnoli, padre ingegnere all’Italsider, tuffandosi nelle acque di Coroglio dai pontili della Montecatini. Dal Tirreno di Napoli all’Adriatico dell’Abruzzo, l’uomo dei due mari.
Pescara è stata la sua isola felice. E a Pescara andavamo per sentirgli raccontare il calcio, i nostri pellegrinaggi d’amore per un uomo d’amore.
“Nel calcio è difficile insegnare l’allegria e perché la mia squadra renda al massimo devo essere felice, devo avere la mia follia, il mio manicomio”. Uno chansonnier del pallone. “Niente ruoli fissi, spazio alla fantasia. Ho sempre ammirato il gioco d’attacco e di destrezza. Ho sempre tifato per le cicale”.
Gasperini, Allegri (“il bel fighino di Livorno”), Leo Junior sono stati i suoi pupilli. Del bosniaco Blaz Sliskovic con un baffo staliniano diceva: “Gli slavi hanno un rapporto musicale col pallone”. Un giorno, Junior gli disse: “Mister, se giocassi come Sliskovic, sarei pieno di miliardi”. Non controllava mai la vita dei suoi giocatori. “Non faccio il guardiano delle mucche, né posso fare il giro dei night e delle discoteche”.
La sua vita è stata piena e appassionata. Per trent’anni allenatore di dodici squadre, le tappe più importanti a Udine, a Ferrara, a Como, a Perugia, un anno tumultuoso a Napoli nella stagione azzurra dei quattro allenatori, poté fare poco e niente. Ai suoi tempi, Maradona avrebbe voluto Galeone sulla panchina del Napoli. Ma solo a Pescara è stato l’Imperatore. Solo a Pescara, dove ha vissuto per otto anni, Giovani Galeone è stato l’uomo felice, tra Tocai e orate, bevitore di champagne “quando me lo posso permettere, altrimenti prosecco o spuma”.
Fra gli anni Ottanta e Novanta, Pescara era una città viva, giovane. I giocatori si ritrovavano da Manuel in via Sulmona e nel negozio di Enzetto. Piazza Salotto, tra il profumo degli oleandri, era un eterno palcoscenico notturno. Movida in grande stile. L’Honeypot, il Niagara, il Lenny, la Birreria di Ivano Malaspina.
Da Eriberto Mastronardi, lo chalet di Galeone, con un leoncino sotto una palma, l’appuntamento erano con le irrinunciabili “chitarrine al sugo di pesce” del cuoco Michele Cicchini. Era il posto dove Galeone incantava raccontando di sé e del calcio, la sua passione per Sartre e Camus (la moglie professoressa di lettere). La leggenda vuole che andasse in panchina con una raccolta di poesie di Jacques Prevert. Dalla madre Dorina prese la passione per la lirica.
Diceva: “Nessuno gioca come il mio Pescara, ha un gioco nuovo che sbanca”. Portò il Pescara in serie A e andò a San Siro a battere l’Inter di Trapattoni con Zenga, Bergomi, Passarella, Altobelli. E ancora: “Sacchi esalta l’orchestra, io preferisco un Pollini al piano che non legge lo spartito”. Il suo calcio libero.
La sua vita libera. Una volta sfidò di notte il radiocronista di rugby e assessore al traffico Domenico Marcozzi a tirare cento rigori allo stadio di Pescara. Un’altra volta raggiunse la Croazia in quattro ore sul gommone di Anna Catone. I viveur della città gli facevano la ruota: Gianni Pilota che ospitava Senna a Pescara, Valerio Santilli con negozio di articoli sportivi, Gianni Santomo che aveva tremila cravatte e collezionava cimeli di D’Annunzio. Una banda di uomini allegri. E Galeone il più allegro di tutti, affabulatore inimitabile, raccontava il calcio come una favola.
“La concentrazione serve quando la palla è tra i piedi degli avversari, quando l’abbiamo noi bisogna essere rilassati e tranquilli”. Il suo vangelo tattico, senza dargli troppa importanza. “Se vai a pressare chi sa palleggiare e ti fa correre, finisci con la lingua di fuori e ti frega in contropiede”. “I miei centrali di difesa respingono il pallone con le mani in tasca”.
Ai tempi del calcio romantico, Giovanni Galeone ne è stato il cantore inimitabile. L’incantatore del pallone. Da tempo seguiva il calcio da lontano, ma nelle interviste era sempre divertente con un giudizio caustico, una battuta fulminante e il suo modo affascinante di raccontare.
E’ venuto a mancare a Udine, 84 anni, in ospedale dopo una lunga malattia. Se ne è andato così “il marinaio”. E’ venuto a mancare l’uomo che ha pensato il calcio come un gioco. Un sentimentale del pallone. Il mondo e il calcio che sono cambiati, computerizzati, ossessionati, aridi, non esprimerà più una mente libera e un cuore caldo come è stato Giovanni Galeone, il nostro incantatore.
