Il cigno che ha nostalgia dell’anatroccolo
Il Napoli di Conte smarrisce il cuore dopo lo scudetto: non più cigno ma anatra, la squadra lotta contro i fantasmi dell'appagamento e la ricerca di una nuova fame.
Foto di C Perret su UnsplashCigno, simbolo di bellezza e fragilità, incarna il momento preciso in cui il trionfo si trasforma in peso. Come il suo volo che pare leggero ma nasconde fatica, così la gloria conquistata dal Napoli smette di essere spinta propulsiva e si tramuta in zavorra invisibile, un fardello che ti costringe a camminare più lento mentre gli altri ti superano, affamati. È il paradosso dell’appagamento: raggiungi la vetta e scopri che lassù, dove l’aria è rarefatta e il panorama mozzafiato, si annida il più subdolo degli avversari. Non è un rivale che indossa casacca diversa, ma un nemico che si nasconde dentro, nello stomaco sazio, nelle gambe che hanno dimenticato la fatica della salita
Antonio Conte, dopo la quinta sconfitta stagionale del suo Napoli, quella maturata al Dall’Ara contro un Bologna organizzato e determinato, ha scelto parole affilate come lame. “Non ho voglia di accompagnare un morto“, ha detto con voce roca, gli occhi stanchi di un uomo che conosce il calcio come pochi altri e che proprio per questo sa riconoscere i sintomi della malattia prima ancora che diventi manifesta. Non è retorica, non è esagerazione. È diagnosi clinica di chi ha visto squadre vincenti sgretolarsi sotto il peso della propria grandezza.
Il Napoli dello scorso anno è stato miracolo e meraviglia. Ha riportato lo scudetto all’ombra del Vesuvio, costruendo un capolavoro fatto di gioco corale, fame atavica e identità riscoperta. Ogni partita sembrava una missione, ogni gol una liberazione collettiva. La squadra di Conte aveva nel DNA quella forza che nasce dal sentirsi predestinati e insieme sottovalutati, la miscela esplosiva di chi ha tutto da dimostrare e nulla da perdere. Il Napoli era ridiventato uno splendido cigno.
La metamorfosi del cigno azzurro
Oggi quel Napoli campione d’Italia sembra lontano anni luce. Non nei nomi, che sono spesso gli stessi, ma nell’anima. “Non vedo alchimia“, confessa l’allenatore salentino, “ma ognuno che pensa al proprio problema“. È l’elenco spietato dell’individualismo che sostituisce il collettivo, il sintomo inequivocabile dell’appagamento che corrode dall’interno. Quando vinci, diventi improvvisamente più interessante sul mercato, più corteggiato dagli agenti, più consapevole del tuo valore economico. L’orticello di cui parla Conte non è solo metafora agricola: è il piccolo giardino privato degli interessi personali che soffoca il campo comune della squadra.
“A volte si pensa che dall’oggi al domani il brutto anatroccolo diventi cigno“, prosegue Conte con amarezza. Ma la fiaba insegna proprio il contrario di quanto crediamo: l’anatroccolo era già cigno, doveva solo scoprirlo. Il Napoli dello scorso anno ha scoperto la propria natura di cigno regale attraverso sofferenza, lavoro, umiltà. Quest’anno rischia di dimenticarlo, cullato dall’illusione che la bellezza sia permanente, che il cigno possa restare tale senza più dover nuotare controcorrente.
L’allenatore si prende le responsabilità con quella onestà intellettuale che lo contraddistingue. “Non sto riuscendo a cambiare questa tendenza“, ammette senza giri di parole. È raro nel calcio moderno, dove ogni sconfitta trova alibi esterni, dove la colpa è sempre dell’arbitro, del campo, della fortuna matrigna. Conte invece guarda in faccia la realtà: quattro mesi non sono bastati a ridare energia a un gruppo che ha bruciato troppo in fretta il carburante dell’entusiasmo.
Ma c’è qualcosa di più profondo nelle sue parole, una domanda esistenziale che travalica il risultato del Bologna. Come si misura la fame? Come si quantifica la voglia? Non bastano allenamenti intensi, schemi perfetti, analisi video. Servono trapianti di cuore, dice Conte, e subito dopo ammette che non si possono fare. È questo il dramma: non esiste chirurgia che possa restituire a chi ha già vinto quella disperazione meravigliosa di chi deve ancora farlo.
Conte parla di “compitino” contrapposto a “squadra con altissime aspettative”. È distinzione sottile ma fondamentale. Il compitino è esecuzione tecnica, rispetto formale del ruolo. Le aspettative richiedono surplus emotivo, quella eccedenza di volontà che trasforma il calciatore in gladiatore. L’anno scorso il Napoli aveva undici gladiatori. Quest’anno rischia di avere undici impiegati.
La sconfitta di Bologna, in sé, non è catastrofe. Il campionato è lungo, il tempo per correggere esiste ancora. Ma le parole di Conte suonano come ultimatum: o si ritrova lo spirito originario, quella fame che rende speciali, oppure questa stagione rischia di diventare anticlimax doloroso. Il morto da accompagnare non è metafora casuale: è l’immagine di una squadra che cammina senza vita, che respira per inerzia, che esiste senza esistere davvero. Il brutto anatroccolo deve ritornare ad essere quello splendido cigno tanto ammirato nella scorsa stagione.
Cosa servirà davvero per riaccendere il fuoco che ha portato lo scudetto?
