Il bimbo di Villa Fiorito che palleggiò duecento volte
Da Villa Fiorito ai Quartieri Spagnoli, dal fango all’oro, dal genio al dolore. Mimmo Carratelli racconta Diego come solo chi ha visto nascere il mito può fare: il ragazzo povero diventato re, amato da Napoli come da nessuno, caduto troppo vicino al cielo

E’ nato ‘nu criaturo pilu pilu. El Pelusa. Il primo nomignolo del primo figlio maschio di mamma Tota e papà Chitoro, nato alla periferia di Buenos Aires, nella banlieue di Villa Fiorito, case di lamiere e mattoni, strade sterrate. Nella casa di fortuna, nonna Salvadora fumava la pipa e il cugino Beto aveva già un pallone da regalare al Pelusa, quel 30 ottobre 1960 quando alle 7,05 del mattino, una domenica naturalmente, il giorno sacro del pallone, nacque Diego e sulla Terra brillò una stella.
Quei tempi furono poveri ma felici. Il calore della famiglia, cinque sorelle, due fratelli, il cugino Beto e zio Alfredo, alleviava la miseria. Diego bambino cominciò a palleggiare davanti a un cineoperatore, vai niño, vai, e il niño andò, duecento colpi al pallone senza fargli toccare terra, e avrebbe proseguito, ma il cineoperatore disse basta, niño, basta perché ho finito la pellicola.
Questo succedeva a Villa Fiorito tra le vie Azamor e Mario Bravo. Finché un giorno passò don Francisco Cornejo, impiegato del Banco Hipotecario Nacional di Buenos Aires e talent-scout per diletto. Ti vide e disse: “Il nano è un fenomeno”.
Eri piccolo e robusto, le gambe toste già da piccolo calciatore, i riccioli e gli occhi neri del tuo futuro di scugnizzo a Napoli. Con papà Chitoro andavi a pesca di dorados e poi allo stadio del Boca, un lungo viaggio in tram. La tua vita felice come non sarebbe stata mai più, condannandoti alla nostalgia e alla solitudine dei grandi, dei più grandi, osannati ma sfruttati, il malessere di una felicità perduta che ti consegnò alla polvere bianca. La tua felicità bambina smarrita nella gloria e nella ricchezza che non riempirono mai il tuo cuore.
Gli dei vollero buttarti giù perché ti eri avvicinato troppo al cielo. La gloria e il dolore. La tua vita drammatica ti ha fatto amare dai cuori semplici, da Napoli, più che per le tue prodezze di calciatore sublime e ineguagliabile. Dicevi: “A me è venuta la pelle dura per quello che ho vissuto a Villa Fiorito”. La pelle dura non lo fu abbastanza alle prime insidie della vita, nello stordimento improvviso della popolarità senza confini, pochi i veri amici lungo la strada in cui tutti ti tradirono.
In questo 30 ottobre voglio ricordare i tuoi giorni di luce. Buenos Aires, Barcellona, l’Italia e Napoli. Le acrobazie finanziarie di Ferlaino per raccogliere dieci miliardi di lire, la tenacia di Antonio Juliano e il suo stratagemma tutto napoletano per vincere le resistenze di Joan Gaspart, il vice-presidente del Barcellona che voleva trattenerti, lui solo, mentre il presidente Josep Lluìs Nuñez e tutto il consiglio di amministrazione catalano volevano mandarti via, i dieci miliardi del Napoli facevano gola. In ogni caso, a Barcellona, non eri felice. Il razzismo catalano nei confronti dei sudamericani ti aveva isolato. Cominciasti a cedere alla polvere bianca. Juliano finse di prendere Hugo Sanchez, il centravanti messicano dell’Atletico Madrid, mollando la presa col Barcellona. Gaspart si arrese vedendo sfumare l’affare.
E quel pomeriggio del 5 luglio 1984, un giovedì, una intera città in festa e lo stadio di Fuorigrotta strapieno. Sull’asfalto del Viale Augusto il tuo gigantesco ritratto fatto con i gessetti colorati da Alfredo Di Leva, il pittore di strada che dipingeva volti di madonna sui marciapiedi. Il tuo primo pallone, una stella filante lanciata nel cielo di Fuorigrotta. Era sera, a Napoli. Un incontro d’amore. Avevamo il nostro re magio.
Andiamo ai Quartieri Spagnoli, nello slargo di via Emanuele de Deo, davanti al gigantesco murale sulla facciata del palazzo dove abita Ciro Vitiello. E’ sua la finestra chiusa, la finestra del bagno di casa Vitiello sempre chiusa perché c’è sovrapposto il volto di Diego, l’immensa figura alta sei piani dipinta la prima volta dal napoletano Mario Filardi e ridipinta dall’argentino Francisco Bosoletti. Nello slargo, un bazar di amore e nostalgia, gadget, bandiere, le maglie col numero dieci, bancarelle e la Bodega de Dios di Bostik, Antonio Esposito, un ricordo perenne del re magio, il luogo italiano più visitato dopo il Colosseo e prima degli Scavi di Pompei, il luogo del cuore grande di Napoli per il ragazzo che cantò “Napoli, seconda mamma mia”.
E’ il 30 di ottobre. Diego avrebbe 65 anni se non lo avessero lasciato morire solo e abbandonato. Ho ancora negli occhi la sua ultima immagine. Diego che esce dalla sua casa disordinata appoggiandosi a uno sconosciuto, una bimba da lontano lo saluta, “Hola, Diego”, e il pibe risponde stancamente al saluto, non ce la fa più, è uno dei suoi ultimi giorni. E poi. Era sera a Napoli. Una dolcissima sera d’autunno, il 25 novembre 2020, un mercoledì, ed era mattina a Buenos Aires, quando il cuore del ragazzo generoso, bello e perduto, si fermò. Il Barba non voleva più vederlo soffrire.
Andiamo ai Quartieri Spagnoli per ricordare Diego nei suoi giorni magici. Quei giorni dell’Azteca, sui duemila metri di Città del Messico che ti spezzano il fiato in gola, il Mondiale 1986.
Da due anni giocavi nel Napoli. Quella tua Argentina era la nostra Argentina. Victor Hugo Morales martellò la sua voce nel microfono di telecronista all’Azteca, “la va a tocar para Diego, ahi la tiene Maradona, lo marcan dos, pisa la pelota Maradona, arranca por la derecha el genio del futbol mondiale, siempre Maradona, genio, genio, genio, ta-ta-ta-ta-ta, una corrida memorabile, gracias Dios por el futbol, por Maradona, per estas lagrimas, per este Argentina”.
Fu il canto di Morales per l’indimenticabile gol agli inglesi nei quarti di finale, superando uno dopo l’altro, in settanta metri e in dieci secondi, Hoddle, Reid, Sansom, Butcher e Fenwich prima di battere Shilton, il gol più bello del Mondiale, il secondo agli inglesi vendicando lo sfregio britannico alle Malvinas. Il primo era stato una sfaccimmeria napoletana, “un poco con la cabeza de Maradona y otro poco con la mano de Dios”. Diego si ripeté in semifinale contro i belgi, seminando quattro difensori e battendo in acrobazia il portiere Pfaff, una esecuzione più difficile del gol rifilato a Shilton.
Campione del mondo. Campione d’Italia col Napoli appena un anno dopo, 10 maggio 1987, il primo scudetto della storia azzurra. E già s’era fatta complicata la tua vita, Diego. La polvere bianca per fuggire dal vuoto esistenziale. Dicevi: “Quando uno ci si trova, vorrebbe dire di no, ma finisce col sentire se stesso che dice di si. Ti illudi di riuscire a dominarla, di venirne fuori, e poi le cose si complicano”. La dura lotta per battere la droga. La commovente confessione alla tv argentina del tuo vizio. E’ stato bello piangere, Diego, quel giorno, piangere vedendo il tuo volto gonfio e sofferto, il tuo corpo sfigurato, la tua dura battaglia che nessuno comprese, tutti pronti a umiliarti e condannarti.
Te ne sei andato dopo avere pagato per tutti i tuoi errori, la squalifica vigliacca, il tradimento americano, il carcere, gli ospedali. Sei andato via senza essere in debito con nessuno.
E c’è questo eterno debito d’amore per te, pibe, re magio, scugnizzo d’ogni cuore napoletano.
