La forza e il limite della sindrome d’accerchiamento
Nella rubrica "La mente in campo", Alberto Cei analizza la valenza psicologica della sindrome dell'accerchiamento, la strategia adottata da Antonio Conte: sentirsi sotto assedio può unire e motivare, ma a lungo andare logora energie, relazioni e capacità di costruire un progetto condiviso.
Photo by AILa cosiddetta sindrome di accerchiamento è un atteggiamento psicologico spesso adottato da allenatori carismatici come Antonio Conte.
Consiste nel percepire — o far percepire — a sé stessi e al gruppo di essere sotto assedio: dai media, dagli avversari o persino dalla società sportiva. È una strategia di motivazione basata sull’idea che, sentendosi minacciati, si rafforzi l’identità collettiva e la voglia di reagire. L’allenatore, in questo caso, diventa il leader che protegge il gruppo da un “mondo esterno” ostile.
Il sentirsi accerchiato può generare una forza straordinaria: spinge a superare i propri limiti, a lavorare con maggiore intensità e a mettere da parte gli ego personali per un obiettivo comune. Molti tecnici alimentano volutamente l’idea del nemico per tenere alta la concentrazione e creare un “noi contro tutti” che cementa la squadra.
Tuttavia, questa visione del calcio differisce profondamente da quella che lo intende come condivisione di un progetto, fondato sulla collaborazione, sulla fiducia reciproca e sulla crescita collettiva. La sindrome di accerchiamento si basa sul conflitto e sulla reazione, mentre il calcio come progetto condiviso si fonda sulla costruzione e sull’evoluzione comune. Nel primo caso, l’energia nasce dalla difesa; nel secondo, dalla partecipazione.
Il rischio è che l’ossessione per i nemici esterni riduca la capacità di creare un’identità positiva e duratura, fatta di idee di gioco e senso di appartenenza più ampio. La coesione nata dal sentirsi accerchiati è forte ma fragile: si regge sulla contrapposizione. Quella costruita sulla condivisione è più lenta ma più stabile. Non a caso, Conte — pur spesso vincente — tende a restare poco nei club che allena: la tensione che alimenta il suo metodo, col tempo, diventa insostenibile per l’ambiente.
È un approccio che brucia energie, genera risultati immediati, ma difficilmente crea cicli lunghi o serenità.
