Quando l’errore diventa colpa: l’approccio attuale non forma gli arbitri e non aiuta le squadre
Nella rubrica “La mente in campo”, Alberto Cei spiega perché la cultura della colpa non forma gli arbitri e non aiuta le squadre: serve analizzare gli errori per imparare, non per punire.
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Il designatore degli arbitri Gianluca Rocchi, in seguito agli errori commessi dai giudici di gara nelle ultime partite, ha dichiarato: “Non vogliamo punire nessuno, ma capire la logica dell’errore. Se è comprensibile, non c’è problema; se è illogico o nasce da protagonismo, allora sì, fermiamo l’arbitro. Il nostro compito è fornire il miglior servizio alle squadre”. Parole ragionevoli, ma che rivelano un’impostazione più disciplinare che formativa, che rischia di non migliorare gli arbitri e tantomeno il servizio alle squadre.
Affermare che si vuole capire la logica dell’errore sembra un atteggiamento aperto. Tuttavia, senza un processo strutturato di analisi, confronto e revisione, resta una semplice valutazione retrospettiva: l’errore viene valutato più o meno accettabile ma non si aiuta l’arbitro a crescere. Ad alto livello, la formazione arbitrale moderna dovrebbe essere continuativa e concentrarsi sulle ragioni dell’errore — pressioni, posizionamento, lettura del gioco, comunicazione col VAR — e su come evitare che si ripeta.
Inoltre, quando si afferma che un errore “illogico o da protagonismo” porta a fermare l’arbitro, il messaggio è chiaro: chi sbaglia, rischia. Questo non crea cultura, ma ansia da prestazione. L’arbitro diventa più attento a non sbagliare che a interpretare correttamente. Ne derivano decisioni più prudenti, meno autentiche, più condizionate dalla paura del giudizio che dal senso del gioco.
Servire le squadre significa migliorare la qualità media, non fermare i “colpevoli”. Il capo degli arbitri dice di voler offrire “il miglior servizio alle squadre”. Ma fermare chi sbaglia non migliora la qualità complessiva del gruppo arbitrale, così come cambiare un calciatore dopo un errore non migliora la squadra. Le squadre hanno bisogno di arbitri competenti, coerenti e sereni, non di una rotazione continua di fischietti timorosi di perdere la designazione e i loro guadagni.
Il mondo arbitrale italiano è ricco di professionalità, ma spesso schiacciato da una cultura della colpa. Servirebbe invece un cambio di paradigma, che parta dall’analisi sistematica delle decisioni, non per giudicare, ma per apprendere; promuovere la discussione tecnica e la condivisione dei criteri valorizzando in questo modo la continuità e la trasparenza nel processo di valutazione.
Solo così si costruisce un sistema realmente formativo per le prestazioni arbitrali di alto livello, dove l’arbitro non teme di essere fermato ma si sente stimolato a migliorare.
