“Pensa che giocatore sarei stato senza la cocaina”
Nel giorno del suo compleanno, un ricordo di Diego Armando Maradona tra consapevolezza e rimpianto. Dalla celebre domanda a Kusturica — “Pensa che giocatore sarei stato senza la cocaina” — alla voce di un padre che immaginava Diego regista a quarant’anni. Perché il calcio, senza di lui, si è privato di qualcosa che non tornerà più.

C’è una domanda che pesa più di mille risposte, una di quelle che restano sospese nel tempo, come un pallone che non scende mai. Diego la rivolse al regista serbo Emir Kusturica, durante le riprese del documentario “Maradona by Kusturica” (2008), con un sorriso amaro e un lampo negli occhi: “Pensa che giocatore sarei stato senza la cocaina.”
Era una delle rarissime volte in cui Maradona ammise apertamente la propria grandezza. Non quella gridata al mondo con le braccia al cielo, ma quella riconosciuta a sé stesso — come se, per un attimo, l’uomo fosse riuscito a guardare il dio senza paura. In quella frase c’era tutto: la consapevolezza del talento assoluto, la fragilità dell’uomo, e la condanna di chi sapeva di aver buttato via una parte di ciò che il destino gli aveva regalato.
Se Diego non si fosse drogato, il calcio mondiale avrebbe visto la sua parabola diventare orizzonte. Non si sarebbe chiusa a 30 anni, consumata tra squalifiche, fughe e ritorni. Avrebbe continuato a scrivere la storia, non solo a evocarla. Avremmo avuto un Maradona maturo, più lento forse, ma più saggio, con la stessa visione e un piede ancora capace di comandare il tempo del gioco. Perché se il genio è fulmine, l’intelligenza calcistica è luce che non si spegne.
Mio padre, negli ultimi anni della sua vita, quando guardava in televisione giocatori che a 35 o 36 anni ancora dettavano geometrie in mezzo al campo, mi ripeteva spesso: “Maradona avrebbe giocato fino a quarant’anni, davanti alla difesa, come regista. Col piede, con la testa e con il cuore.”
Aveva ragione. Lo immagino lì, con la dieci sempre addosso ma più arretrato, a distribuire palloni come verità, con lo sguardo che già sa dove andrà la palla. Sarebbe stato un altro modo per insegnare calcio, forse il più puro: quello dell’esperienza, non solo del talento. Senza nulla togliere ai vari Modric, Lobotka, Çalhanoğlu, Diego avrebbe interpretato quel ruolo con la benda davanti agli occhi e un piede legato. Perché per lui il calcio non era questione di metri o di tattica, ma di visione: vedere prima, pensare prima, essere prima degli altri.
Di cosa si è privato il calcio, allora? Non solo dei gol e delle giocate. Si è privato di un testimone vivente della sua stessa leggenda. Di un maestro che avrebbe potuto insegnare ai più giovani come si domina un pallone, ma anche come si sopravvive alla gloria. Si è privato di un uomo che avrebbe potuto mostrare che la redenzione non è un’idea, ma un passaggio di ritorno.
Diego lo sapeva. Per questo quella domanda non era retorica, ma confessione.
E noi, a distanza di anni, possiamo solo provare a rispondere: saresti stato tutto, Diego.
Ma anche così, con i tuoi abissi e le tue cadute, sei stato più di chiunque altro.
Perché il calcio, da allora, non è più stato lo stesso — e forse non lo sarà mai più.
P.S.
Quel giorno avevo in tasca una vecchia mille lire. Era solo un pezzo di carta stropicciata, finché non incontrai Diego. Gliela porsi d’istinto, come si porge qualcosa che non vale nulla ma che può diventare tutto.
Lui la firmò con il suo sorriso e con quella grafia nervosa, come se anche un autografo dovesse dribblare il destino.
Da allora quella banconota non è più denaro: è memoria, è presenza. È il mio modo per ricordare che certi incontri non comprano nulla, ma valgono tutto.
