Napoli-Lazio e quella curva incolore

Cosa rappresenta, oggi, il calcio? E perché gli episodi di Napoli-Lazio ci aprono la mente sulla risposta?

Articolo di Lorenzo Maria Napolitano04/03/2023

© “TIFO – CALCIO” – FOTO MOSCA

Se non fosse per il nome che porta, il Maradona ieri contro la Lazio sarebbe stato un ammasso di metallo grigio e insipido. Mancava il clima di festa, la gioia, l’esaltazione – anche eccessiva – di un popolo che vede di nuovo la gioia più pura davanti a sé. Chi era allo stadio non ha potuto evitare di guardare per un secondo il mondo in bianco e nero, con delle leggere note colorate provenienti da maglie azzurre, gialle, bianche e rosse, o tutte le altre prodotte dalla società di De Laurentiis in questi anni. Gli ultras del Napoli hanno deciso di disertare la gara contro la squadra di Maurizio Sarri, nonostante l’importanza, nonostante l’avversario. Il regolamento d’uso dello stadio Maradona non permette deroghe, è impenetrabile. Qualche striscione non ha superato i controlli fuori l’arena, e si è fatta avanti l’antica regola del «Tutti o nessuno». Risultato: un Maradona incolore, insapore, vuoto, non fisicamente ma globalmente. È soltanto un indizio della rotta che prende il calcio, lontano dai suoi ideali: la storia di questo, infatti, è un’epopea cromatica, dove ogni colore ha il suo richiamo ed ogni vessillo un vanto di distinzione verso gli avversari.

Ieri il Napoli si è presentato contro la Lazio senza alcun segno d’appartenenza, non vedeva sbandierate le sue origini, non c’era motivo d’orgoglio di essere azzurri; Spalletti si è presentato in guerra senz’armi, e queste – seppur intese diversamente – le avevano i tifosi ospiti (paradossale). Questo può essere inteso in due modi: attraverso una prima e ampia lettura siamo davanti all’ennesima dimostrazione del sempre più attuale concetto di tifoso-cliente, visto ormai alla stregua di soggetto passivo del calcio. Manca un coinvolgimento attivo, ci si è dimenticati del fatto che è proprio grazie ai tifosi che il calcio è lo sport più popolare, scritto, seguito, studiato al mondo. Sarebbe logico, giusto, se non necessario, implementare un nuovo livello di coinvolgimento sull’asse tifoso-squadra-società. Sull’argomento è molto interessante il lavoro di SinC che, in collaborazione con Rivista Contrasti, spiega un innovativo progetto di coinvolgimento attivo (qui il link). È un calcio si è trasformato in uno spettacolo di molti protagonisti e pochi spettatori, dimenticandosi – per mano di altri – delle sue origini, dove gli attori principali erano un pallone, una competizione e persone disposte a tutto per godersela.

Possiamo poi dare un’interpretazione basata su un concetto differente, e che racchiude il suo più intenso significato in una frase di Eduardo Galeano: «Giocare senza tifosi è come ballare senza musica». Non che a Napoli i tifosi mancassero in quell’occasione, ma che cos’è un tifoso senza la sua bandiera, il suo vessillo, denudato di tutto ciò che lo rende fiero di poter cantare a squarciagola l’amore verso la propria squadra. Come si possono sprizzare emozioni da tutti i pori senza quella sciarpa che ti accompagna ad ogni gara, e come posso condividere le mie emozioni senza uno striscione che manifesti la mia gioia? La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere, dove viene condannato ciò che è inutile o che non porta guadagno. Oggi sono molto più appetitosi 100 spettatori che 10 tifosi, e tra le due definizioni scorre una differenza abissale.

Tifo deriva dal greco, richiama la “febbre“, una malattia. È qualcosa di travolgente e passionale; tutt’altra cosa è lo spettatore, l’umore dello spettatore non dipende dalla prestazione sportiva, non ha ferite aperte o da sanare. In breve, lo spettatore non soffre di alcuna malattia. Il prezzo di un biglietto, però, non ha alcun valore soggettivo, e dunque più biglietti venduti si traduce in più incassi, l’unica cosa che oggi realmente interessa ai vertici.

Non è un calcio di pionieri, ma di professionisti. Per fortuna che esiste ancora chi, sfacciato e con la faccia sporca, manda tutto al diavolo e decide di scartare tutti, avversari in campo, regole, arbitri e pubblico, per il puro piacere di giocare a calcio. Per questo è impossibile non innamorarsi dei calciatori de Medianoche, come li chiamerebbe Daniel Entrialgo. Qualcosa di semplice e genuino, come un gatto che gioca con il gomitolo.

Non ci resta che rileggere Pier Paolo Pasolini, che nel 1970 disse: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo». E mentre tifosi di tutto il mondo continuano la loro guerra santa in tal senso, predicando amore, libertà ed indipendenza da qualsiasi tipo di mercificazione, il retaggio culturale non fa altro che bloccare questa fonte di energia chiamata tifo.

Spesso, pensando alla bellezza, ai colori, alla sacralità del calcio, si pensa subito all’altra parte del mondo, il Sudamerica. Sì, quello che inscenano partita dopo partita è senza dubbio spettacolare, e se si declina il calcio come religione si pensa senza dubbio a quella porzione di terra, ma non bisogna mai dimenticarsi che si parla del continente delle laceranti contraddizioni: miseria e nobiltà, oro e fango, tutto e niente. Certo spettacolo, ma che si tenga in considerazione il problema delle barras bravas, il lato oscuro del calcio (soprattutto argentino). Un tifo più che organizzato, politicizzato. Un eccessivo potere incentrato nelle mani di chi, del calcio, non ci ha capito proprio granché, e non bisogna conoscere a memoria De Coubertin per saperlo. Facce di una stessa medaglia, di un calcio non più padrone di sé stesso, ma schiavo degli altrui interessi.