© FOTO ARCHIVIO PERSONALE DAVIDE MORGERA
Erano due omoni, due giganti, due attaccanti di peso. Veloce ed esplosivo uno, Orlando, più compassato e tecnico l’altro, Barison. In comune hanno avuto Napoli e Roma, due tra le varie squadre in cui hanno militato. Due atleti che non ebbero la fortuna che meritavano ma che sono ricordati ancora oggi per essere stati tra i simboli di un attacco frizzante e schioppettante, allegro e fantasioso, tecnico e prolifico.
Se il primo faceva un po’ da comprimario alle qualità eccelse di Altafini, Canè e Sivori, sul secondo pesavano quasi tutte le responsabilità di un reparto che, tolto Altafini, non era certo produttivo. I suoi partner, infatti, furono, a turno, Manservisi, Nielsen, Canzi, non proprio dei fulmini di guerra. Entrambi, però, fecero il massimo per la maglia azzurra e nel 1967-68 si ritrovarono nella stessa rosa giocando anche diverse partite insieme, il romanaccio Orlando con la “nove” e il veneto Barison con la “undici”.
Tutti e due ex romanisti, erano in campo con la maglia azzurra quando il Napoli giocò all’Olimpico ma uscì sconfitto per 2 a 1 il primo ottobre 1967. Il gol dei partenopei fu segnato, per la cronaca, proprio da Paolone Barison mentre Orlando sfuggì poche volte al controllo di un mastino come Scaratti.

IL CAPITOLO AZZURRO DI ORLANDO
Quando Orlando giocò col Napoli per due anni la squadra guidata da Pesaola era sempre tra i quartieri alti della classifica e si piazzò una volta quarta ed un’altra seconda in classifica mentre i giallorossi annaspavano tra il decimo e l’undicesimo posto. Era un Napoli grande, che entusiasmava la folla di Fuorigrotta, era la squadra simbolo del Sud Italia. Invece in quel periodo, visti i non eccelsi campionati della squadra della Capitale, si coniò il termine “Rometta”.
Romano de Roma, 83 anni quest’anno, Alberto Orlando fu preso dal Napoli per il torneo 1966-67 con il preciso scopo di prendere le botte che erano destinate ad Altafini e soprattutto per attirare le attenzioni dei difensori avversari su di lui e lasciare più spazi a Josè. Si creò, quindi, un quintetto delle meraviglie formato da Canè, Juliano, Altafini, Sivori e Orlando, un lustro per gli occhi e per il cuore. Tre le squadre che lo avevano lanciato in Serie A, la sua Roma quando era abbastanza acerbo, la Fiorentina (con i viola fu capocannoniere della Serie A nel 64-65 con 17 reti) ed il Torino dove si era affermato.
Arrivò a Napoli da torello con un fisico granitico, era tutto un fascio di nervi, esplosivo ed esultava saltellando. Sembrava la controfigura di Giuliano Gemma e con lui, infatti, si “sparavano” pallonate sulle difese avversarie. Quel Napoli era fatto di “gringos” con le pistole sempre fumanti ed i portieri avversari a raccogliere palloni nel “saloon” del San Paolo. Il non eccelso bottino di reti, 7 nel primo anno e 4 nel secondo, convinsero i dirigenti azzurri a darlo alla Spal a soli 30 anni e 60 partite giocate. Un declassamento che forse il bomber romano non meritava visto anche che il suo sostituto fu Barison che di gol, ahinoi, ne fece pochi anche lui.


L’ESPERIENZA DI BARISON
Se John Charles fu il “Gigante buono” del calcio europeo degli anni ’50, Paolo Barison da Vittorio Veneto, classe 1936, lo fu del calcio italiano degli anni ’60. Anch’egli biondo, occhi azzurri, una stazza fisica da urlo, una elevazione che dava centimetri ai difensori avversari, una punta potente e coraggiosa con un bel sinistro, dirompente, forte in progressione ma anche in acrobazia. Uno che “faceva a sportellate”, come si direbbe oggi, con il suo diretto avversario in area. Un generoso, un pezzo di pane alto 1,84, che diventò lo spauracchio delle difese avversarie.
Segnò molto nel Genoa, che poi lo inserì nella sua “Hall of Fame”, nel Milan e nella Sampdoria ma non rese come avrebbe dovuto nella Roma e nel Napoli. Qui, infatti, dopo un ottimo primo campionato, dovette lottare per il posto da titolare proprio con Orlando e poi con Manservisi nel suo ultimo anno con Chiappella. Dopo aver giocato nel Napoli per tre campionati totalizzando solo 7 reti, iniziò la sua parabola discendente perché passare da una città che vive di pane e pallone come Partenope alla Ternana in serie B non fu proprio il massimo. Chiuse addirittura in Serie D, nel Levante, dopo una breve parentesi in Canada.


ROMA-NAPOLI, 0-0 ALL’OLIMPICO
Nella gara dell’Olimpico del 1965, giocata anche quell’anno proprio il 24 ottobre, il silente Paolo vestiva il giallorosso, era nel giro della Nazionale che poi avrebbe fatto i Mondiali di Inghilterra ed era considerato, con Riva e Pascutti, un’ala sinistra tra le più forti in Italia. In quel “derby del sole”, terminato 0 a 0, Canè sbagliò tre volte davanti a Cudicini “Ragno Nero” e le squadre finirono per accontentarsi del risultato ad occhiali. Del resto gli azzurri, neo promossi, veleggiavano già nell’alta classifica ed erano sazi dalla domenica precedente dove avevano rifilato cinque palloni all’Atalanta in casa (tripletta di Altafini, Sivori ed un’autorete) mentre la Roma di Losi, Salvori e Francesconi viaggiava con una buona media inglese.

Nell’occasione Barison fu marcato benissimo dal nostro Nardin, un giocatore che arrivò anche in Nazionale in un periodo storico dove dominavano le milanesi. La parentesi di Paolone Barison calciatore degli azzurri non fu all’altezza delle previsioni ma cerchiamo di immedesimarci per un attimo nella persona che lo volle a Napoli. I maligni insinuarono che a chiederlo, a 31 anni suonati, più che Pesaola fu Altafini il quale, oltre ad essere convinto della sua bravura per averlo avuto compagno di squadra nel Milan, era anche molto innamorato della moglie, Annamaria Galli, la donna che aveva già dato tre figli a Barison e che poi “Core ‘ngrato” sposò nel 1973. Una brutta mazzata per il bomber buono che definire “sfortunato” è poco.
Ricordo ancora di quando si diffuse la notizia della sua tragica fine quando faceva l’osservatore per il Torino. L’incidente tra la Fiat 130 e il TIR, le immagini di un Gigi Radice, l’allenatore dei granata che viaggiava con Barison, all’ospedale dove fu intervistato dalla “Domenica Sportiva”. Il mister granata riportò varie ferite gravi, riuscì a salvarsi e raccontò della dolente fine del suo collaboratore, rimasto intrappolato nell’auto in fiamme. Si parlò della fatalità che accompagnava da sempre la maglia granata, di Superga, della squadra di Valentino Mazzola ma il crudele destino era dietro l’angolo e stavolta la falce nera della Morte aveva scelto una vittima sacrificale che non sapeva fare del male a nessuno. Un fato simile avrebbe poi colpito in Polonia, dieci anni più tardi, un altro atleta dall’animo buono come Gaetano Scirea.
Leave a Reply