Dai racconti di Buffa sappiamo che era il 1968, autunno inoltrato. A Buenos Aires, in un campo di terra del Parco Saavedra, nel bel mezzo di una burrasca c’è un vecchio uomo di calcio che si nasconde nel tutone rosso dei Bichos Colorados (insetti rossi). Sta guardando un ragazzino giocare per la prima volta, gliel’hanno consigliato. Il provino avrebbe dovuto svolgersi nel “Semillero”, il centro sportivo degli Argentinos Juniors, ma quel giorno era inagibile, l’acqua ti arrivava alle ginocchia.
Il ragazzino è sublime, fa impazzire i coetanei, li manda a terra tutti. Don Francisco (l’uomo in tuta), nonché allenatore delle giovanili dei Bichos, non crede a ciò che sta vedendo: “Sicuri che è nato nel 60’?”. Il piccoletto è del 60’, per la precisione è venuto al mondo – o forse spedito al mondo da chissà quale pianeta o quale Dio – il 30 ottobre 1960. Lui, però, non ha nemmeno i documenti per testimoniarlo. Non ne avrà bisogno per tutta la vita e neanche dopo.
Diego Armando Maradona lo riconoscevi subito, da lontano un miglio, dal rumore che scaturiva dal contatto tra il suo piede e il pallone, dal suono che emetteva scivolando sull’erba, dalla gente che gli era attorno, dal suo sorriso canzonatorio.
Don Francisco non sapeva chi fosse, continuava ad essere scettico. L’immensa superiorità che il Pibe de oro manifestava nei confronti degli altri gli faceva pensare: “Questo è un nano”. Diego, aveva otto anni – oggi ne avrebbe compiuto sessantuno – era davvero basso ma non era un nano. Era semplicemente il più piccolo, o forse il più grande.
È davvero difficile raccontare o provare a spiegare, anche in maniera leggera, Maradona attraverso gli aspetti tecnici. Chiunque lo abbia visto, dal vivo o dai video, può dire una sola cosa, ovvero che Diego è stato il più grande giocatore di tutti i tempi. Oppure che lo è stato insieme a Pelè. Non si può aggiungere o omettere null’altro.
Nell’anno in cui abbiamo dovuto imparare a stare al mondo senza di lui, accettare la sua perdita, elaborare una mancanza quasi familiare, vale la pena ricordare ciò che un calciatore ha avuto più di tutti gli altri: la simbiosi con quelli che lo hanno amato. Una simbiosi che nei giorni del suo abbandono ha avuto le sembianze di un mare. Nessuno ha legato con uno stadio, con dei popoli, con un’ideologia, come ha fatto Diego. Nessuno. Non c’è bandiera che tenga. Non Totti, non Del Piero, non Puyol, non Maldini, non Beckenbauer. Nessuno.
Maradona a Napoli – ma anche nella terra del fuoco – è stato un messia, l’epifania del 5 luglio che nessuno si aspettava. L’anima di una città che all’improvviso si è fatta carne. Solo un’innocente blasfemia può spiegare l’arrivo di Diego a Napoli, una squadra di mezza classifica si ritrova ad avere il più talentuoso di tutti. Un popolo allo sbando, bisognoso di riscatto, inizia ad amare davvero qualcuno prima di cominciare a vincere, perché coglie misticamente tutta la rivoluzione e la leadership che c’è in quell’uomo e lo elegge a proprio personalissimo “Che Guevara”, il guerrillero heroico che Diego aveva stampato sul braccio (non poteva avere altro).
Sotto al Vesuvio la distanza, o il confine, tra ciò che è sacro e ciò che non lo è, in fondo, non si è mai percepita. Quel riccioluto ragazzo argentino riesce, con il solo piede sinistro, a sciogliere ogni tipo di resistenza. Scioglie la “neve nei pantaloni” nelle canzoni, il sangue nelle vene quasi quanto San Gennaro. Questi miracoli nessuno poteva negarli. E non meraviglia che in città oggi ci siano degli altari a lui dedicati in ogni quartiere. Non meraviglia che ci siano veri e propri pellegrinaggi.
Eppure di santo Maradona ha sempre avuto ben poco. Come si spiegava la droga, l’alcool, le serate brave, gli allenamenti saltati? Semplice. Semplicemente non lo si faceva. Maradona a Napoli poteva, Napoli era l’unica a potere Maradona.
Una città e un calciatore, uniti come un figlio e una madre, uniti come da un cordone ombelicale lungo migliaia di chilometri, quelli che corrono dal Molo Beverello a Buenos Aires. È stato, ed è, e sarà qualcosa di unico. Unico come il modo di stare al mondo di una persona, Diego, e di una comunità, quella napoletana. Napoli-Maradona è qualcosa che non finirà mai.
Ancora oggi, quelli che hanno urlato per Cavani, pianto per il Pipita, creduto nel “Comandante”, quelli che hanno immaginato che Mertens significasse scudetto in belga, e adesso impazziscono per quella freccia nera di Osimhen, sul podio della devozione metterebbero Diego sul gradino più alto: irraggiungibile.
Le rappresentazioni del Pibe sono dappertutto, sulle spalle, sui muri, sulle facciate dei palazzi, sulle maglie, quelle con la scritta che prende tutto il petto e recita “chi ama non dimentica”. E non sono solo parole. Diego non c’è più, è nell’amore per lui e non sarà mai dimenticato. Trovate qualcosa di simile se ci riuscite.
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