E così se n’è andato anche Frank Williams, cinque mesi prima di compiere 80 anni. Di sé diceva: «Sono uno matto per le corse» e miglior definizione non poteva trovarla. Figlio di un ufficiale della aviazione britannica e di una maestra, nato a South Shields il 16 aprile 1942, al di là della Manica veniva considerato «il Ferrari di Inghilterra» (e lui ne era onoratissimo), mentre l’ingegnere, che pure aveva grande ammirazione per lui, lo definiva uno dei «garagisti» della formula uno, non per disprezzo, ma per sottolineare l’uso di motori prodotti da altri (Ford Cosworth, Honda, Renault, BMW, Toyota e Mercedes).
La Williams di sir Frank ha vinto molto in Formula uno, come testimoniano i numeri: 114 Gran premi (il primo con Clay Regazzoni nel 1979, l’ultimo nel 2012 con Pastor Maldonado), 7 titoli mondiali piloti (Alan Jones nel 1980, Keke Rosberg nel 1982, Nelson Piquet nel 1987, Nigel Mansell nel 1992, Alan Prost nel 1993, Damon Hill nel 1996 e Jacques Villeneuve nel 1997), nove mondiali costruttori (1980, 1981, 1986, 1987, 1992, 1993, 1994, 1996 e 1997). A cambiargli la vita, una prima volta, era stata una prova su una Jaguar XK150, prestata da un amico. Aveva tentato l’avventura come pilota, ma poi aveva preferito concentrarsi sulla possibilità di dare vita a una scuderia. Scelta difficile, con inizi in salita, niente soldi, la linea del telefono dell’ufficio tagliata per via delle bollette non pagate, il lavoro svolto in una cabina del telefono, soluzione suggestiva, ma pur sempre scomoda. All’inizio della sua storia, frequentava molto l’Italia, si faceva chiamare Franco Guglielmi e proprio un amico italiano, Giancarlo Falletti, giornalista freelance, prima di passare al Corriere della Sera, gli aveva dato un piccolo aiuto economico, gesto mai dimenticato da Frank, nonostante le sue battute al telefono, tipo: «C’è per favore quell’inutile uomo di Giancarlo Falletti?».
La sua vita aveva conosciuto un momento tremendo, quando era già famoso e vincente: l’8 marzo 1986, mentre stava raggiungendo l’aeroporto di Nizza, dopo le prove al Paul Ricard, aveva affrontato troppo velocemente una curva ed era finito in un dirupo. Si era spezzato due vertebre, aveva lottato per la sopravvivenza ed era rimasto tetraplegico. Perché Frank Williams è stato un grandissimo, al di là delle vittorie (e delle sconfitte, che fanno parte dello sport)? Ad esempio, perché soltanto un visionario può pensare di mandare avanti un team di formula uno da una sedia a rotelle, lui che non era nemmeno in grado di sollevare un bicchiere. Oppure perché ha avuto intuizioni geniali, prime tra tutte quella di affidarsi a Patrick Head, suo socio, uomo capace di rivoluzionare la Formula uno e poi di prendere un altro grande, Adrian Newey.
E ancora: puntare più sul Mondiale costruttori che su quello piloti, una scelta in controtendenza. Già i piloti. Gli piaceva andare alla ricerca dei giovani, Jean Alesi, Damon Hill e Gilles Villeneuve ne sono la dimostrazione, anche se aveva avuto alle sue dipendenze tanti grandi, da Rosberg a Prost, da Jones a Mansell e Piquet. Li considerava importantissimi, ma ha sempre privilegiato la scuderia; per questo non ha mai voluto accettare richieste contrattuali giudicate eccessive; per questo non ha mai puntato su una prima guida, in senso stretto, puntando sulla «corsa libera» dei due piloti, strategia che gli era costata almeno un paio di titoli mondiali.
La morte di Ayrton Senna (1° maggio 1994), al quale aveva affidato in prova una sua monoposto nel 1983 per riprenderselo undici anni dopo, lo aveva segnato per sempre. Gli ultimi anni erano stati difficili, soprattutto dopo la morte della moglie (2013), fra sponsor in fuga, costi sempre più alti, la salute precaria, ma aveva fatto di tutto per non mollare la scuderia fino al 2020, quando era subentrato il fondo statunitense Dorilton Capital. Lui aveva già fatto un passo indietro, lasciando che a gestire il team fosse la figlia Claire, ma non aveva smesso di emozionare e di emozionarsi, come nel 2018, quando prima del Gran Premio d’Inghilterra, Lewis Hamilton lo aveva portato a fare un giro sulla pista di Silverstone.
«Mi hanno detto di andare piano…» E la risposta era stata: «Mi aspetto grandi cose da un campione del mondo». I giri erano diventati più di uno, gli brillavano gli occhi, sentiva che la vita gli stava scappando di mano, ma voleva sognare ancora una volta. Almeno per un momento, perché «la Formula uno mi ha sempre aiutato, è stata la medicina più efficace della mia vita».
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