Imperatore: “La simpatia e la bontà vanno bene all’oratorio, non in azienda”
Vincenzo Imperatore ha analizzato l'efficacia, seppur certe volte scorbutica, del presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis.

Vincenzo Imperatore, scrittore e analista finanziario, ha analizzato sul Napolista, l’efficacia, seppur certe volte scorbutica, del presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, strettamente collegata al fenomeno del Talentonomics.
Riportiamo l’intero articolo:
La settimana scorsa abbiamo visto che il tema della attrattività dei talenti da parte del Napoli è un problema comune a tutte le altre squadre della fascia alta del campionato di serie A. Anzi il Napoli, se si abbandona la narrazione euristica, è tra le società di quel target con il più basso indice di turnover del personale dirigenziale (allenatori e direttori sportivi) e di campo (calciatori). Però, sono stato il primo erroneamente a sostenerlo, è evidente che il Napoli, come tutte le piccole imprese a gestione familiare (non dimentichiamo che tale è la dimensione economico-finanziaria comparativa del Napoli), comunque non riesce ad attrarre e trattenere tanti allenatori- direttori sportivi-calciatori che scappano o, come si racconta, non vogliono avere rapporti professionali con il presidente.
Ma anche in questo caso occorre fare una precisazione importante: si tratta di un falso problema causato dalla errata interpretazione del significato che, in quelle realtà, si attribuisce al concetto di “talento”.
Il talento, inteso come genio, come fuoriclasse (Mbappè, Messi, Ronaldo, Neymar, Halland, Guardiola, Klopp, ecc), nel Napoli come in tutte le principali società calcistiche italiane (compresa la Juventus), oggi non ci può arrivare.
In questo tipo di aziende calcistiche il talento è semplicemente un potenziale buon giocatore o un calciatore esperto, non necessariamente anziano.
Ma quando si può essere certi di avere a che fare con un autentico talento?
Il “talento” deve superare quattro prove. Primo, ovvio, deve fare prestazioni che siano superiori a quella dei colleghi. Secondo, tali prestazioni devono essere sistematicamente migliori, non un evento straordinario che potrebbe essere frutto di un colpo di fortuna. Terzo, il talento si manifesta in situazioni che colgono l’essenza del successo collettivo. Un calciatore, ad esempio, non deve essere solo abile nel palleggio, ma la sua prestazione deve produrre risultati positivi per la squadra e i suoi tifosi. In ultimo, per essere vero talento, deve essere replicabile e misurabile: “Se non si può misurare, non si può migliorare”.
E tante ricerche mostrano con prove solide e schiaccianti che, nel calcio come in qualsiasi altro settore, talenti non si nasce, ma si diventa.
E’ comprovato infatti da ricerche che tutti gli splendidi “talenti” incontrati in queste realtà, durante gli anni della loro crescita, si sono esercitati intensamente, hanno studiato con capi-maestri-allenatori coinvolti e impegnati, e sono stati sostenuti entusiasticamente dai compagni di squadra.
In particolare è stato verificato che le differenze individuali tra gli atleti normali e quelli considerati di talento sono legate a differenze nella quantità e nella qualità della loro pratica/allenamento. Una pratica metodica che richiede degli sforzi considerevoli, specifici, e duraturi volti a raggiungere un obbiettivo che prima non poteva essere raggiunto (perché, ripetiamolo, non si tratta di un fuoriclasse), sempre alla ricerca di nuove opportunità per esercitarsi, per eliminare gli errori e le debolezze dal suo operato, e per trovare dei modi per arrivare a dei risultati migliori.
Ovviamente, il viaggio verso l’eccellenza non è né per chi è debole di cuore, né per chi è impaziente: lo sviluppo di una competenza autentica richiede un grande sforzo, il sacrificio, e una onesta, spesso dolorosa, autovalutazione.
La maggior parte delle persone non ha mai vissuto ambienti competitivi, per cui non ha idea di quanto serva per giungere a determinati livelli. A chi non è dell’ambiente, può sembrare che le prestazioni dei talenti siano eccellenti per la grazia ricevuta dal dna oppure perché risultato di un esercizio quotidiano costante di anni o addirittura di decenni. Tuttavia, il nascere o il vivere in una cava non fa diventare automaticamente dei geologi! Non sempre le doti naturali e l’esercizio porta alla perfezione. Per diventare dei talenti-esperti occorre un particolare tipo di pratica sistematico, occorre metodo.
Ecco dove sta la differenza: nel Napoli esiste da parte della società (meglio dire del presidente Aurelio De Laurentiis) una pressione sistematica per l’applicazione di quel metodo che prescinde dalla normale sollecitazione dell’allenatore. Un martellante e petulante controllo dei comportamenti e dei miglioramenti, unica strada per garantire la valorizzazione degli asset aziendali.
Non ci sono altre scorciatoie per poi massimizzare il risultato sportivo ed economico (plusvalenza).
Negli ultimi anni, si inizia a parlare di Talentonomics (economia dei talenti), ovvero dell’impatto in termini di profitti per l’impresa quando riesce ad utilizzare i talenti efficacemente, valorizzandone il potenziale. Nelle aziende, uno dei principali nodi problematici in questo ambito risiede proprio nella quantificazione del ritorno che possa essere univocamente attribuito a quella risorsa, a quella persona in quello specifico ruolo. Del resto, come ormai sappiamo, quello di posizionare la figura giusta al posto giusto è anch’esso un talento e, nelle aziende, non accade per caso.
Al contrario, richiede uno sguardo costante ed attento alle aree nelle quali realmente si crea valore. E, ovviamente, alla misura in cui i migliori talenti contribuiscono al risultato complessivo.
Sfortunatamente, non tutte le aziende-calcio lo comprendono. E’ anche vero, però, che, qualora si ha a che fare con una pratica metodica, è facile perdere la bussola.
Non è un caso che tutti quelli divenuti talenti (non fuoriclasse) a Napoli (Cavani, Lavezzi, Higuain, Jorginho, Sarri, Spalletti, ecc….) non abbiamo poi avuto stabilità competitiva e successi internazionali che, laddove ottenuti (Jorginho con Europa e Champions League, Sarri, con Europa League), sono stati casi sporadici successivamente rientrati nell’ambito delle prestazioni “normali”.
La sostenibilità aziendale passa anche per la maniacale pressione che tanti spacciano per “antipatia”. Provate a parlare, come ho fatto io nel mio libro “A scuola da De Laurentiis” (Ultra Editore), con ex allenatori, dirigenti e calciatori del Napoli a distanza di qualche anno dal loro divorzio (anche traumatico): lo apprezzano tutti.
Perché per un imprenditore o un manager efficiente non è importante essere simpatico o antipatico, amato o odiato ma è determinante essere stimato.
La simpatia e la bontà vanno bene all’oratorio, non in azienda