Quegli allenatori devoti ma non fedeli…

Roberto Beccantini riflette, tra ironia e dottrina, sul confine sottile tra fedeltà e devozione nel calcio: da Spalletti a Conte, da Sarri a Lippi, quando il tradimento diventa professione e la passione dei tifosi, religione.

Papa leone
Articolo di Roberto Beccantini03/11/2025

Se persino papa Leone XIV, Usa all the way, ha dichiarato urbi et orbi che «Amare significa lasciare l’altro libero anche di tradire», perché mai non appena ci tradiscono allenatori o giocatori finiamo per scannarci e «divorziare» dalla normalità? Il tatuaggio napoletano di Luciano Spalletti, né rinnegato né cancellato all’atto dell’epifania juventina, ha accentuato il livore di entrambi i popoli, alle falde del Vesuvio e ai piedi dei Monti.


Visto che siamo in tema – e se non in tema, almeno in famiglia – per sintetizzare la formula di un matrimonio durato mezzo secolo l’avvocato Gianni Agnelli aveva coniato questa definizione: «Non sono un marito fedele, sono un marito devoto» (da «Agnelli coltelli» di Gigi Moncalvo). Capito? «Io alla Juventus mai» lo pronunciò addirittura Fabio Capello, all’epoca della cattedra romanista. Non poteva vedere la cricca di Luciano Moggi. Approdatovi nel 2004, avrebbe poi difeso in tutte le sedi la liceità dei due scudetti confiscati da Calciopoli. Devotissimo.


La curva interista tributò ad Antonio Conte il distacco degli avversari che non perdonano «certi» percorsi e, soprattutto, determinati trascorsi. Ci volle lo scudetto del 2021 per spingere la piazza a rettificare, parzialmente, il giudizio sullo «juventin fuggiasco». Che, scappato da Appiano, tornò subito gobbo «feo y aburrido».


Prima di accettare la proposta della Triade, Marcello Lippi si raccolse in preghiera sulla tomba del nonno, «vecchio socialistone toscano anti Agnelli», e gli chiese umilmente scusa (dalla testimonianza del figlio Davide, sulla «rosea» del 29 ottobre). José Mourinho, lui, ha traslocato dal Porto al Benfica senza macerarsi tra morsi e rimorsi. Era impensabile che Maurizio Sarri dal Napoli, «via» Chelsea, lasciasse il progetto di colpo di stato («bastano diciotto uomini») per farsi «stato», chez Madama. Invece lo fece. E ci vinse pure.


Si torna, così, al delicato e perfido confine tra devozione e fedeltà. Aldo Serena non ha mai allenato, ma se le è fatte tutte: Inter e Milan, Juventus e Torino. Con la faccia di bronzo del «migrante» che ai lacci del cuore preferisce il cannocchiale di Galileo Galilei e del suo celeberrimo «Eppur si muove».
Il tifoso, sull’onore, non scherza. Le praterie del web ne hanno moltiplicato gli strumenti d’indagine. Non c’è «adozione» che non venga giudicata per direttissima. Proveniva dal Milan, Massimiliano Allegri, intralcio che scatenò i berci degli juventini. Sempre meglio, comunque, di Carlo Ancelotti, al quale la feccia bianconera diede del «maiale». Degli autentici signori.


Nel calcio, l’appassionato parte credente e, in base ai risultati, si fa credulone. «Siamo professionisti», si difendono i Lutero a libro paga. Dai voti agli stipendi di scambio c’è di mezzo il traffico delle convenienze e delle indulgenze. Quanti giornalisti hanno giurato eterno amore a una testata e poi hanno fatto di testa propria? A scanso di equivoci, l’incipit che ho riportato era del sommo pontefice, non di un ultrà.

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