Ode alla rivalità
Troppo spesso si tende ad odiare l'avversario. Certe volte, invece, bisognerebbe ringraziarlo, perchè senza di lui, non ci sarebbe nulla.
Ciao, sono il tuo avversario; non l’avversario “x” della squadra “y” della partita domenicale. Sono il tuo avversario di sempre. Per intenderci, sono come il Real Madrid per il Barcellona, o come il Partizan per la Stella Rossa. Le radici del nostro rapporto risalgono alla notte dei tempi, per i più svariati motivi, una cosa è certa: la rivalità non nasce dal calcio, anzi, si riversa in esso. Non è stato questo sport a dividerci. Il nostro rapporto conflittuale nasce per ragioni di carattere storico, sociale, politico. La nostra rivalità, per quanto a volte abbia prodotto scene cruente, è famosa nel mondo, siamo il bianco e il nero, il giorno e la notte. Quando ci affrontiamo, non importa cosa ci sia in palio, il mondo ci guarda battagliare. A partire dalle feste dei tifosi sugli spalti, alle giocate dei nostri beniamini in campo.
Eppure, chi ci guarda non sa cosa ci sia dietro quella partita. Non ci sono i tre punti, il passaggio del turno, l’eliminato o l’eliminante. Si travalica la natura sportiva. Proprio per questo si vive quell’infuocata atmosfera. Quella che la sera prima sai ti accompagnerà per tutto il giorno, fino ad arrivare alla partita. Il mal di pancia, la testa che non si riesce a concentrare; sei distratto, hai solo un pensiero nella testa: devi vincere, morir o matar come direbbero gli spagnoli. Poi c’è il campo, a cui spetta l’ultima parola. È lui a decretare chi godrà della gloria e chi cadrà nel baratro. Così come è successo nella “Finale eterna” tra River Plate e il Boca Juniors in quella notte di Madrid.
Il paradosso
In questo scenario delineato, sembrerebbe intercorrere un vero e proprio odio tra gli avversari. Ognuno vuole avere la meglio sull’altro, ci sono ragioni extracalcistiche che alimentano la sfida, sembrerebbe che ci siano i presupposti per una dichiarazione di guerra. Invece no, perché l’avversario, inteso nell’accezione sopracitata, non va odiato, va amato e ringraziato.
“Amare l’avversario? Io sono un napoletano/interista, come posso amare lo juventino/milanista? Mai e poi mai!“
Invece è proprio in questi casi, che l’avversario va ringraziato. Per quanta ansia si possa vivere nelle ore, o nei giorni, precedenti alla gara, sicuramente nessuno vorrebbe privarsi di quell’ansia; gioia e dolore di ogni tifoso. Come potrebbe un “casciavìt” vivere senza l’emozione palpitante di dover giocare contro i “baùscia”. Se non fosse stato fondato il Racing, o l’Independiente, ad Avellenada la terra non vibrerebbe. Senza l’uno, viene a mancare l’emozione, l’ansia, la soddisfazione, il cuore che batte per un gol o per una parata. Mancherebbe l’urlo liberatorio al triplice fischio, verrebbe meno l’orgoglio di scendere di casa soddisfatto perché si ha avuto la meglio sui rivali di sempre.
Dunque, per poter vivere a pieno l’emozioni che solo questo sport sa regalare, è necessario che ci sia l’avversario; quello che il giorno prima non ti fa dormire sereno la notte. Senza l’avversario, non ci sarebbe la rivalità, senza la rivalità, mancherebbe il sale che dà sapore al calcio.