Stadio Maradona vuoto: accettazione o rassegnazione?
L’homo Neapolitanus fan è mutato antropologicamente. Noi tifosi, spesso ci diciamo: “abbiamo accettato la situazione e ci siamo rassegnati!”

©️ “STADIO MARADONA” – FOTO MOSCA
Sono le domande del momento: perchè lo stadio Maradona, se confrontato alla media spettatori del San Paolo di 15-20 anni fa, è praticamente vuoto? Perché il Napoli, nonostante una passione mai sopita e confermata attraverso il web, non è più attrattivo come spettacolo da stadio? E soprattutto perché, quand’anche si riesce a raggiungere il record (!!!) di 30-35.000 spettatori allo stadio in partite valide per le prime posizioni della classifica, il tifo non produce più l’effetto di dodicesimo uomo in campo?
E un presidente di una azienda-calcio, anche solo per un giorno, come il lettore di questa rubrica, deve soffermarsi su questa situazione.
Partiamo da una premessa: indipendentemente dalle solite e comprensibili motivazioni (il calcio in tv, gli stadi poco accoglienti, la crisi economica), c’è una considerazione che non vogliamo accettare: l’homo Neapolitanus fan è mutato antropologicamente.
Ed in questa metamorfosi, noi tifosi, spesso ricerchiamo una causa dicendoci: “abbiamo accettato la situazione e ci siamo rassegnati!”
Facciamo una gran confusione perché trattasi di due situazioni completamente diverse: in diverse occasioni crediamo di aver accettato una situazione quando in realtà ci stiamo solamente rassegnando.
Qual è la differenza?
Sono due atteggiamenti molto diversi. La rassegnazione ci farà soffrire perché continueremo ad aspettare che la situazione sia diversa da come è realmente. A volte, ci illudiamo che possa cambiare. Viceversa, quando la accettiamo, significa che affrontiamo la realtà senza pretendere di cambiarla, senza troppo soffrire e questo ci permette di continuare a fare progetti, cercando opzioni migliori durante il nostro cammino.
Sono le due condizioni psicologiche che viviamo, da tifosi, io e mio figlio Agostino cui ho trasferito questa genetica patologia.
Per i tifosi di una squadra pocovincente (meglio di troppoperdente così accontentiamo anche gli psicoterapeuti), la delusione ha un diverso peso in relazione a una variabile temporale.
Consentitemi di spiegare questa mia folle teoria. Le delusioni che arrivano dopo i successi hanno un valore minore di quelle che si maturano prima delle vittorie. I fallimenti sportivi che si consumano dopo le soddisfazioni non producono, nella nostra personalissima scala di memoria, il ricordo delle delusioni “più grandi”. Perché si ha la pancia piena e, a livello inconscio, come dicono appunto gli psicologi, ci si aggrappa all’ultimo momento felice. Il tifoso di una squadra pocovincente compensa la delusione con le gioie già vissute.
Della serie: «Che me ne frega se questo anno non ho conquistato lo scudetto, tanto sono stato campione d’Italia già due volte”
C’è, quindi, secondo questa soggettiva tesi, un tempo preciso in cui si vanno a collocare le “grandi delusioni”: quello prima di vincere!
Quel tempo in cui, come tifoso, non hai vinto ancora nulla di importante!
Ecco le mie delusioni sportive sono vissute diversamente da quelle di Agostino che, nato nel 1994, non ha goduto delle gioie del settennato Maradoniano.
E’ chiaro, quindi, che il sottoscritto cerca di accettare una situazione perché riesce a “sopravvivere”
Tuttavia, ci rassegniamo quando non ci muoviamo nella direzione che desideriamo, ma rimaniamo come intrappolati in quella situazione, autocommiserandoci, sentendoci vittime delle circostanze senza fare nulla al riguardo perché pensiamo che “questo è quello che c’è e non possiamo farci niente”.
L’accettazione è anche rispetto perché quando accettiamo una situazione o una persona così com’è, sparisce il desiderio di cambiarla, la rispettiamo profondamente e solo in seguito decidiamo se conviene o meno continuare la relazione con questa situazione/persona, se ci sentiamo rispettati o meno.
La rassegnazione, inoltre, amplifica il dolore che non si riesce a superare facilmente.
Ad esempio, quando ci rassegniamo di fronte alla scomparsa di una persona cara, ne soffriamo, siamo arrabbiati con la vita e con il mondo, non lo accettiamo, vogliamo cambiare la realtà delle cose.
Accettare la perdita significa, invece, superare il dolore. Accettare che qualcuno non c’è più significa ridurre la sofferenza, non essere arrabbiati, andare avanti con la propria vita perché questa non finisce, ma ha molto altro da offrire. In questo caso, l’accettazione è la fase finale di un dolore sano.
Accettare o rassegnarsi sono due facce della stessa medaglia perché abbiamo bisogno di “voltare pagina e dimenticare” quanto è successo, abbiamo bisogno di andare avanti con la nostra vita.
Se nella vita accettiamo tutto quello che ci capita, allora saremo i padroni del nostro destino, supereremo gli ostacoli e troveremo la felicità imparando qualcosa da tutte le esperienze che avremo vissuto. Se, invece, ci rassegniamo, il dolore e la sofferenza ci accompagneranno sempre.
Io ho accettato la situazione di pocovincente, Agostino si è rassegnato. E voi?