César Cueto, il predicatore che accarezzava il pallone come un pensiero

Per la rubrica "Insolite coordinate - Il calcio raccontato da altre latitudini", Luigi Guelpa ci racconta la parabola di César Cueto, il poeta del pallone che ha trovato Dio tra le polveri del Perù

Articolo di Luigi Guelpa29/10/2025

Nel pomeriggio di Vigo, il 18 giugno del 1982, il calcio sembrava ancora un affare di eleganza e misura, di uomini che accarezzavano la palla come si accarezza un pensiero malinconico. L’Italia di Bearzot pareggiava per la seconda volta consecutiva, questa volta contro il Perù, e nessuno ancora sapeva che quel gruppo di giocatori spaesati e taciturni sarebbe diventato campione del mondo poche settimane dopo. Tra gli uomini vestiti di bianco e rosso che li misero in difficoltà c’era César Cueto, un centrocampista che giocava come se il tempo non lo riguardasse, come se ogni tocco dovesse essere una dichiarazione estetica.

Cueto era già allora una figura sospesa tra mito e dimenticanza. A differenza dei grandi fantasisti sudamericani celebrati in Europa, i Rivelino, gli Zico, i Bochini, il suo talento era un segreto per pochi, una forma di resistenza. Era il tipo di calciatore che i cronisti europei definivano “indolente” quando non sapevano spiegare l’intelligenza tattile, o la calma mistica di chi gioca per sé stesso e per un dio che non conosce ancora.

Contro l’Italia Cueto fece quello che faceva sempre: camminò per metà partita, corse per l’altra metà, e ogni volta che toccava il pallone sembrava inventare un nuovo verbo del calcio. Gli bastò un movimento di spalla per disorientare Tardelli, un passaggio di esterno per disegnare un’idea di gioco che nessun compagno seppe capire fino in fondo. Quando lasciò il campo, il pubblico europeo aveva assistito senza accorgersene a un piccolo frammento di letteratura sportiva.

Oggi, oltre quarant’anni dopo, César Cueto vive lontano dai riflettori e dagli stadi. A Trujillo, nel nord del Perù, ha smesso di parlare di schemi e diagonali per parlare di salvezza e redenzione. È diventato un predicatore cattolico, uno di quelli che portano la parola nei villaggi polverosi, nelle chiese improvvisate, tra i bambini che giocano scalzi su terreni dove il pallone rimbalza, male ma i sogni ancora resistono.

Chi lo ascolta racconta che, a volte, durante le sue omelie, Cueto parla del calcio come metafora della fede: “Il talento è un dono, ma anche una prova. Se non lo usi per servire, ti brucia dentro.” Non è difficile immaginarlo, con gli occhi che si illuminano di una dolcezza antica, spiegare che Dio, come il pallone, non si domina, si accompagna.

In un’epoca in cui il calcio si è fatto industria e il sacro è merce da schermo, la parabola di Cueto assume una forza quasi scandalosa. È come se un artista avesse scelto di ritirarsi dal museo per tornare alla bottega, o un poeta avesse smesso di scrivere per pregare.

Ma forse, per un uomo come lui, pregare e giocare erano sempre state la stessa cosa: un modo di sfiorare il mistero con il dorso del piede.

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