In difesa del lancio lungo, prigioniero dei pulpiti
Se l’hombre vertical resta sinonimo di rettitudine, che il lancio lungo - "verticale" non diventi il manifesto di un qualcosa di obsoleto.
Lasciate che mi presenti. Mi chiamo Lancio lungo. Non ho fissa dimora e sono fratellastro del Lancio liberatorio, quello che gli italiani chiamano, volgarmente, «Campanile». Perché riassume una certa storia e perché incarna un modo di evadere dalle emergenze (difensive, soprattutto), scaricando fra le nuvole il mezzo (la palla) diventato il fine: e il problema.
Diciamo che ho vissuto tempi migliori. E il Covid, con tutto il disprezzo, non c’entra. Il mio isolamento era cominciato molto prima, fra le pieghe di un catechismo che i dotti hanno cambiato privilegiando il comunismo del «giuoco» al gesto anarchico, schietto, del singolo che prova ad aggirarlo senza violarne lo spirito. La prima botta me la diede Johan Cruijff in epoca non sospetta, abolendo il posto fisso. Eppure veniva dal baseball. Eppure sapeva, o almeno avrebbe dovuto sapere, la differenza tra lanciatore e ricevitore.
Da Guardiola ad Arrigo Sacchi
Poi è arrivato Pep Guardiola, un suo megafono, con la diffusione del tiki-taka, un metodo che impediva, rigorosamente, i passaggi oltre i dieci metri, diconsi dieci. In pratica, lo sterminio di noi tapini, messi all’indice e deportati nella Siberia dei demolitori del concetto di spazio: garantito, esclusivamente, alla casta dei passator cortesi.
L’ultima pugnalata me l’ha inflitta Arrigo Sacchi, in una intervista che fece scalpore: «Dicevo sempre a Baresi: Franco, sappi che ogni volta che fai un lancio lungo mi dai un dispiacere». Testuale. Marziale. Che ricordi, ai tempi della Grande Inter, Armando Picchi non provava mal di cuore – o mal di pancia – ogni volta che Luisito Suarez scavalcava il campo per liberare, da area ad area, Sandro Mazzola o Jair.
E in una vecchia puntata di Juventus-Avellino, ci fu un titolare della squadra irpina che andò personalmente a complimentarsi con Michel Platini per una «pallottola» che aveva squarciato il terreno da destra a sinistra per poi depositarsi, docile, tra gli alluci di Marco Pacione (beato lui): che, naturalmente, se la mangiò. In questi casi, scatta la segreteria telefonica: altri tempi, altro calcio.
Per carità. In Inter-Juventus del 17 gennaio 2021, Alessandro Bastoni servì in profondità Nicolò Barella in termini così geometrici e geografici da sorprendere nel sonno le sentinelle di Andrea Pirlo, un «gavetta zero» che mai nella vita avvicinereste (o avreste avvicinato) a un precettore vecchio stile, bacchettate sulle mani e catenaccio all’occhiello.
La bellezza non si misura in metri
La costruzione dal basso, agevolata e scortata dalle ennesime capriole del regolamento, mi ha distrutto: letteralmente. Ormai mi trattano come polvere d’archivio, come una foto ingiallita che spunta, improvvisa e fastidiosa, dal baule di una cantina. Lo so, in quanto Lancio lungo sono parte in causa, e dunque il conflitto di interessi mi frena, mi frega. Rivendico però la nobiltà e l’utilità – sociale, addirittura – dell’idea della gittata chilometrica.
Se l’hombre vertical resta sintomo e sinonimo di rettitudine, di “huevos”, che il lancio lungo – “verticale”, appunto – non diventi il manifesto di un qualcosa di obsoleto, di detestabile. Colleghi inglesi mi assicurano che Jurgen Klopp, a Liverpool, non è affatto incavolato quando i suoi battono lontano. Il tocco corto è nutrito del consenso, il lancio lungo del confronto. La bellezza non si misura in metri: se mai, in metrica. Invoco solo di essere giudicato come un «cittadino» normale, colpevole o innocente in base all’esito dell’arcobaleno. Al di là delle scuole di pensiero. E di sentiero. Chiedo troppo?