Gli 85 anni di Trapattoni: il guardiano del tempo
Il 17 marzo Giovanni Trapattoni ha compiuto 85 anni. Con stima e affetto, anche se in ritardo: tanti auguri di buon compleanno, Trap.
Il 17 marzo Giovanni Trapattoni ha compiuto 85 anni. È nato a Cusano (salvo poi trasferirsi a Milanino, il suo sogno) in uno scorcio che avrebbe segnato le doglie, tragiche, della Seconda guerra mondiale. A Napoli è legato da un paio di suggestive ricorrenze. La prima: il debutto in Nazionale. Il 10 dicembre 1960, al San Paolo: Italia-Austria 1-2. Era un’amichevole, il gol dell’effimero pareggio lo realizzò Giampiero Boniperti, capitano, alla 38a. e ultima presenza. Quando si dice il destino: uno aprì, l’altro chiuse. La seconda: il battesimo da tecnico, senza balie o tutori, in campionato. Il 14 aprile 1974, a San Siro: Milan-Napoli 0-0. Precettato d’urgenza al posto di Ce-Ce-Cesare Maldini. Numero nove, Albertino Bigon; numero 10, Ottavione Bianchi. Era il Napoli di Luis Vinicio, metà zona e metà ammuina.
Il Trap. I leoncini di tastiera ne avranno colto echi lontani, nebbiosi. Famiglia operaia, una sorella suora, prete mancato, tipografo all’alba della vita e, nel pieno, calciatore. Mediano. Anni Sessanta, anni di fantasia e isteria. Milan, soprattutto. E titoli di coda a Varese. Milan, dicevo. Una bacheca da «sciur»: 2 scudetti, 1 Coppa Italia, 2 Coppe dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe, 1 Coppa Intercontinentale. Ha marcato Pelé, Eusebio, Johan Cruijff. Elegante, generoso.
L’allenatore è stato la prolunga di Nereo Rocco, lavagne ruspanti, fondate sulla difesa e il contropiede, cardini della scuola breriana. Milan come rampa, quindi dieci stagioni alla Juventus, l’Inter (con tanto di scudetto strappato al Napoli di Diego, terzo indizio, e al Diavolo degli olandesi), ancora Madama, Bayern, Cagliari, ancora Bayern, Fiorentina, Italia, Benfica, Stoccarda, Salisburgo, Irlanda. Di record in record, e con due soli esoneri «volanti» (Cagliari, Stoccarda), ha rastrellato trofei in quattro Paesi: Italia, Germania, Portogallo, Austria.
Giuan. I fischi dalla panchina, quel linguaggio un po’ così, selva di neologismi e anacoluti, di traduzioni ad sensum (a Dublino, il giorno dell’incoronazione: «I don’t play violino») e di slogan secchi («Strunz!», ai bei tempi bavaresi). Ma come era forte, la sua prima Juventus tutta italiana; e come giocava la sua Inter tedesca. Lo sbarco di Arrigo Sacchi e del suo catechismo «islamico» – non avrai altro schema all’infuori di me – spaccò il loggione in due: il megafono del vecchio testamento, il piazzista del nuovo. Ci si scannava allegramente. Cambiava il lessico, si adeguava il vocabolario, non la voluttà di salire sul pulpito e fingere di mandare al rogo il risultato. L’acqua santa e l’arbitro Byron Moreno, quello di Corea del Sud-Italia; Michel Platini e Lothar Matthaeus. Rompevano, ma servivano; servivano, ma rompevano. Sarebbe un errore, un imperdonabile errore, imprigionarlo dentro le sbarre delle sue battute, del suo folclore che, con l’età, è diventato sempre più «siliconato».
Si cimentò persino da telecronista, ma qua e là gli scappava un moccolo e allora, poveri registi.
«La classe operaia va in paradiso»: ecco il film, mutuato pari pari dalla pellicola di Elio Petri (1971) che potrebbe decorare la sua romanzesca avventura, tra «L’albero degli zoccoli» e «Fuga per la vittoria». Bisogna riconoscergli che non si è mai finto scienziato, e neppure inventore, mestiere che molti imbonitori si contendono. Mai. Al massimo, nell’intento d’insegnare la semplicità del calcio, ha peccato di uno slang fin troppo «basso», almeno per i cultori di «mancino» e i carnefici di «sinistro». Germano Bovolenta, sulla «Gazzetta» del 2 marzo, ne ha incorniciato il motto che meglio lo scolpisce e riassume: «Il pallone è bello, ma non va dimenticata una cosa: è gonfio d’aria». Con stima e affetto, anche se in ritardo: buon compleanno, Trap.