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Il calcio è anche “tradimento”

Il calcio è anche “tradimento”

La bellezza dello sport è anche «tradimento». Nel senso che non sempre si riesce a essere sé stessi. Prendete l’ultimo derby della capitale. Da Premier: per ritmo, per «garra», per occasioni e ribaltoni. Se si esclude l’avvio, di marca laziale, vi sfido a dirmi chi era Maurizio Sarri e chi José Mourinho.

Le tracce della manovra, che di solito esploriamo per uscire in bellezza dal labirinto tattico e tradurlo in un calcese accessibile, portavano in zone ambigue, a un ibrido che coinvolge la flessibilità. La Roma di Mou attaccava a pieno organico, la Lazio di Mau si difendeva al limite della propria area. Ma non ci avevano insegnato, per anni, il contrario? Certo, il risultato. Il gol di Sergej Milinkovic-Savic aveva spaccato l’equilibrio. E indotto il vate di Setubal a cambiare copione.

D’accordo. Resta il fatto, non marginale, che il 2-0 di Pedro e il 3-1 di Felipe Anderson sono sbocciati da taglienti e purissimi contropiede, l’arma cara a una lettura più italianista che sarrista. In carriera, Mourinho non ha mai considerato il centro del ring una priorità strategica. Se glielo lasciano, bene; se glielo negano, pazienza; se gli serve, lo invade. «C’era Guevara», in compenso, ne va matto. Non al punto da restarne schiavo, ma sempre con l’idea, attraverso il dominio territoriale, di rendere schiavi gli avversari.   

Alla Juventus, lo ha confessato lui stesso, scese a compromessi, costrettovi dalla dittatura di Cristiano Ronaldo e dalle caratteristiche dei sudditi, Paulo Dybala in testa. E dal momento che il tema riguarda le «corna» dottrinali, occhio al caso di Massimiliano Allegri. Sarà pure una infedeltà «a sua insaputa», quella girandola di scarti così strani, così obesi, ma i 3-2 allo Spezia e alla Sampdoria rimandano alla scapigliatura di Zdenek Zeman, l’allenatore più lontano dalla filosofia del «corto muso». Le creature del boemo rischiavano per abuso di coraggio, per la voluttà di trasformare ogni partita in una mano di poker.

I puzzle del livornese, in assenza della «Bbc» d’antan, si aprono a tabellini aziendalmente ciccioni per eccesso di calcoli, di scrupoli; se non di paura o di gamba. Zdenko cercava l’equilibrio nello squilibrio, Max è squilibrio per fuga di equilibrio. In Chelsea-Manchester City di sabato, Pep Guardiola ha obbligato Thomas Tuchel a rintanarsi nella sua trequarti, stracciandogli le pagine dell’adorato catechismo. Tutti indietro, appassionatamente. Solo nella ripresa, sotto di un gol, i campioni d’Europa hanno cercato di valicare, e vellicare, la metà campo altrui, riuscendovi in circostanze e in modi mai o quasi mai all’altezza delle esigenze. Naturalmente, ha vinto il City.

Tradire è un po’ morire, si narra. Il «Calcio Liquido» di Emiliano Battazzi racconta che non è vero: o comunque, che non è peccato mortale. A patto di non indossare la maschera e millantare di non aver fatto ciò che, viceversa, emerge dalle cronache. «La coerenza, diceva Oscar Wilde, è l’ultimo rifugio delle persone prive d’immaginazione». Immagino lo sdegno di Zeman. Spesso, però, bisogna fare di necessità virtù. E tradirsi, se non proprio tradire. Per rimanere fedeli, almeno, alla rozza e sozza materia

Dimenticavo: bim-bum-bam, luna park a San Siro e a Roma, Niagara di gol ovunque, topi d’archivio schiacciati dalla ressa dei numeri, di paragoni, serenate e sviolinate. Poi, di nascosto, ti allontani dalla calca e, quatto quatto, sbirci la classifica. Chi è primo e chi secondo? Il Napoli e il Milan. Le squadre che hanno preso meno gol. 

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