Storia di Boban: da Dinamo-Stella Rossa a Ceferin, c’è calcio e calcio
Il 13 maggio 1990 scoppiava il putiferio nell'ambito di Dinamo Zagabria-Stella Rossa e Boban sferrava un calcione: non c'è da meravigliarsi del no secco che il «calciatore pensante» ha sbattuto in faccia a Ceferin.
Tutto si può scrivere, di Zvonimir Boban, tranne che non abbia le palle. Era il 13 maggio 1990, quando lo stadio Maksimir di Zagabria ribolliva dell’attesa per il derby tra Dinamo e Stella Rossa. Una sorta di giudizio universale a rate. Croati contro serbi. Morto il maresciallo Josip Broz Tito il 4 maggio 1980 e caduto il muro di Berlino il 9 novembre 1989, la ex Jugoslavia era sul punto di implodere. Lo sport le diede una mano, le fornì un pretesto.
Gli ultras delle due sponde non aspettavano altro. Si insultarono, si inseguirono, si menarono. Dentro l’arena e fuori. Non si giocò. Capitano della Dinamo, Zvone aveva 21 anni. Nel bel mezzo del marasma, scorse un ragazzino pestato da un poliziotto e corse in suo aiuto, sferrando una ginocchiata al volto dell’agente. Per la cronaca, la polizia di Zagabria flirtava con il regime: cioè, con lo zoccolo serbo. La squalifica di sette mesi gli impedì di prendere parte, in Italia, ai Mondiali delle notte magiche (meno una).
Pentito? Mai. Quel calcio non lasciò segni solo nel calcio, scusate il bisticcio, ma anche nella sua vita e nel sangue di un Paese che, di lì a poco, sarebbe saltato in aria anche per la forza simbolica e dirompente di quella «non» partita. Perché meravigliarsi, dunque, del no secco che il «calciatore pensante» ha sbattuto in faccia ad Aleksander Ceferin? La notizia è di martedì scorso. In sintesi: cara Uefa, addio. Leggo sulla «Gazzetta dello Sport»: dimissioni irrevocabili [da Head of football, capo del calcio] e nessuna richiesta di buonuscita. Così impara, il caudillo sloveno, a tradire le promesse fatte in assemblea e a trescare, lui che è presidente dal 2017, per un quarto mandato, scenario che lo statuto non contempla. Tre al massimo. Si decide l’8 febbraio, al congresso di Parigi.
Il problema è che Ceferin non ha più lo «scudo umano» di Andrea Agnelli da offrire in pasto ai fedelissimi. Boban non è perfetto, e mai ha preteso di esserlo, ma detesta le dittature, specialmente se mascherate. Da Nyon parlano, ipocriti, di «risoluzione consensuale». Col cavolo. «Paradossalmente è stato proprio Ceferin – ha ribadito Boban – a proporre e avviare un pacchetto di riforme che negavano palesemente tale possibilità.[…] Il distacco da quei valori, cancellando le modifiche più importanti, è sorprendente e incomprensibile, soprattutto in questo momento».
Fughe. Rifiuti. Ribellioni. Era vice-segretario generale della Fifa e, quindi, non proprio l’ultima ruota del carro: eppure, nel 2019, mollò la poltrona per unirsi alla crociata milanista di Paolo Maldini. Salvo venir licenziato nel marzo del 2020 per aver criticato l’allora amministratore delegato Ivan Gazidis e il fondo Elliott. In ballo, l’operazione clandestina che doveva portare all’esonero di Stefano Pioli e all’avvento di Ralf Rangnick, il guru tedesco all’origine del modello Lipsia. Ma che poi a Manchester, sponda United, non avrebbe lasciato tracce altrettanto significative.
Ai tempi de «La Stampa», ogni volta che serviva un «titolo» mi rivolgevo a Zvone. Non che parlasse sempre forte, ma sempre chiaro, sì. Sul Milan e sul resto. Nemmeno al dottore in Storia, con una tesi sulla «cristianità nell’Impero romano», piaceva la Superlega. E, di conseguenza, appoggiò l’impeto iconoclasta del suo principale, poi travolto dalla valanga europea della sentenza anti-monopolio del 21 dicembre. Da Franco Carraro a Giovanni Malagò, per passare da Juan Antonio Samaranch a Joseph Blatter, l’idea di inchiodarsi alla carica, fingendosi bussole indispensabili, rappresenta un attentato alla decenza. E se la carne di Boban può essere stata debole, la memoria no: lotta.